filosofo del '900
UTET, Torino, 1961, pp. XII-905; 1964 rist. riv.; 1968 rist. riv. 1971 2a ed. riv. e accr.; 1984, 1987,1990.1992,1995 rist. 2a ed.; 1998 3a ed. agg. e amp. da G. Fornero et al.
Traduzioni: Diccionario de filosofia, trad. Alfredo N. Galletti, Fondo de Cultura Economica, Mexico D.F., 1963-1964, pp. XVI-1206; 2a ed. 1974; 1986 rist. - Dicionario de filosofia, trad. di Alfredo Bosi, Ed. Mestre Jou, Sao Paolo, 1970; 1992 2a ed. - Dicionario de filosofia, Ed. Martin Fontes, Sao Paolo, 1998; 3a ed. 1998, 1a ristampa 2000. - Dicionario de filosofia, trad. di A. Bosi, Ed. Mestre Jou, Sao Paolo, 1966, rist. 1970; 1992 2a ed. - Dicionario de filosofia, trad. di A. Bosi Ed. Martin Fontes, Sao Paolo, 1998
La disparità delle F. si riflette ovviamente
nella disparità dei significati di "F." senza tuttavia impedire
di riconoscere in essi alcune costanti. Fra esse, meglio
si presta a connettere e articolare i significati diversi del termine
la definizione illustrata nell'Eutidemo platonico: la F.
è l'uso del sapere a vantaggio dell'uomo. Platone osserva
che a nulla servirebbe possedere la scienza di convertire le pietre
in oro se non si sapesse servirsi dell'oro; a nulla servirebbe la
scienza che rendesse immortale se non si sapesse servirsi dell'immortalità;
e via dicendo. Occorre dunque una scienza nella quale coincidono
il fare e il sapersi servire di ciò che si fa; e questa scienza
è la F. (Eutid., 288 e-290 d). Secondo questo concetto,
la F. implica: 1° il possesso o l'acquisto di una conoscenza
che sia nel contempo la più valida e la più estesa
possibile; 2° l'uso di questa conoscenza a vantaggio dell'uomo.
Questi due elementi ricorrono frequentemente nelle definizioni che
sono state date della F. in epoche diverse e da diversi punti di
vista. Essi si riscontrano, per es., nella definizione di Cartesio,
secondo la quale "questa parola F. significa lo studio della saggezza
e per saggezza non s'intende soltanto la prudenza negli affari ma
una perfetta conoscenza di tutte le cose che l'uomo può conoscere
sia per la condotta della sua vita sia per la conservazione della
sua salute e l'invenzione di tutte le arti" (Princ. Phil.,
Pref.).Si ritrovano ugualmente nella definizione di Hobbes, per
la quale la F. è da un lato conoscenza causale, dall'altro
utilizzazione di questa conoscenza a vantaggio dell'uomo (De
Corp., 1, § 2, 6); e in quella di Kant che definisce il concetto
cosmico della F. (cioè il concetto di essa che interessa
necessariamente ogni uomo) come quello di "una scienza della relazione
di ogni conoscenza al fine essenziale della ragione umana" (Crit.
R. Pura, Dottr. trasc. del metodo, cap. III). Questo fine essenziale
è la "felicità universale": la F. pertanto "riferisce
tutto alla saggezza, ma per la via della scienza" (Ibid.,
in fine). Non diverso significato ha la definizione della F. data
da Dewey come "critica dei valori" cioè "critica delle credenze,
delle istituzioni, dei costumi, delle politiche, rispetto alla loro
portata sui beni" (Experience and Nature, pag. 407). Queste
definizioni (che si adducono qui solo come esempi) si lasciano tutte
ricondurre alla formula platonica che abbiamo citato in principio.
Quella formula ha il vantaggio di non assumere nulla circa la natura
e i limiti del sapere accessibile all'uomo o circa gli scopi cui
l'uso può essere indirizzato. Si può pertanto intendere
quel sapere sia come rivelazione o possesso sia come acquisto o
ricerca; e l'uso di esso può essere inteso come diretto alla
salvezza ultramondana o terrena dell'uomo come all'acquisto di beni
spirituali o materiali o alla realizzazione di rettifiche o mutamenti
nel mondo. Pertanto quella formula appare adatta ugualmente ad esprimere
i compiti disparati che la F. si è di volta in volta assunti.
E, per es., essa esprime ugualmente bene sia il compito delle F.
positive o dogmatiche sia quello delle F. negative o scettiche.
Quando lo scetticismo antico si propone di realizzare, mediante
la sospensione dell'assenso, l'imperturbabilità dell'anima
(Sesto E., Ip. Pirr., I, 25-27) non fa che intendere la F.
come l'uso di un certo sapere per conseguire un vantaggio. Analogamente
quando, nella F. contemporanea, Wittgenstein afferma che lo scopo
della F. è quello di far sparire gli stessi problemi filosofici
e di eliminare la F. stessa o di "guarire" da essa (Philosophical
Investigations, § 133) non fa appello ad un concetto diverso
di F.: la liberazione dalla F. è il vantaggio che l'uso del
sapere (che è in questo caso la rettificazione linguistica
di esso) può procurare.
I due elementi riconoscibili della definizione
della F. che si è ritenuta adatta ad apprestare il quadro
delle articolazioni principali del significato del termine, costituiscono
già di per se stessi la prima di tali articolazioni. Si possono
in altri termini distinguere i significati storicamente dati del
termine: 1° rispetto alla natura o alla validità del sapere
cui la filosofia fa riferimento; 2° rispetto alla natura dello
scopo cui la F. intende indirizzare l'uso di questo sapere. Infine,
3° si possono distinguere i significati del termine rispetto
alla natura del procedimento che si ritiene proprio della filosofia.
I. La filosofia e il sapere. - L'uso del
sapere al quale l'uomo, a qualsiasi titolo, accede, è, in
primo luogo, un giudizio sull'origine o la validità
di tale sapere. E a proposito del giudizio sulla validità
del sapere, si offrono subito due alternative fondamentali che stabiliscono
la distinzione fra due tipi diversi ed opposti di filosofia. La
prima alternativa stabilisce l'origine divina del sapere: esso è
per l'uomo una rivelazione o un dono. La seconda alternativa stabilisce
l'origine umana del sapere: esso è un acquisto o una produzione
dell'uomo. La prima alternativa è la più antica e
la più frequente nel mondo, dal momento che è quella
di gran lunga prevalente nelle F. orientali. La seconda alternativa
è quella sorta in Grecia e di cui il mondo occidentale moderno
è l'erede.
Secondo la prima alternativa, il sapere è
una rivelazione o illuminazione divina di cui sono stati privilegiati
uno o più uomini e che si trasmette per tradizione in
un gruppo altrettanto privilegiato di uomini (casta, setta o
chiesa). Esso non è quindi accessibile ai comuni mortali
se non per il tramite di coloro che ne sono i depositari; né
è possibile, ai comuni e non comuni mortali, incrementarne
il patrimonio o giudicarne la validità. Fa parte integrante
di questa interpretazione dell'origine del sapere la credenza
che anche l'uso di esso a vantaggio dell'uomo - vantaggio che
in questo caso è la "salvezza" - sia dettato o prescritto
dalla rivelazione o illuminazione divina. Sembra dunque che
questa interpretazione elimini o renda superfluo il "lavoro"
filosofico che verte appunto su quest'uso. Ma in realtà
ciò accade di rado. L'esigenza di avvicinare la verità
rivelata alla comune comprensione umana, di adattarla alle circostanze
e far sì che essa risponda ai problemi nuovi o mutati
che gli uomini si pongono, di difenderla contro negazioni, deviazioni,
incredulità dichiarate o nascoste, fa sì che il
lavoro filosofico trovi, in questa concezione del sapere, un
vasto campo per esplicarsi e compiti molteplici cui far fronte.
Tale lavoro rimane però subordinato e ancillare: non
è e non può essere decisivo, quando si tratta
delle interpretazioni fondamentali e delle istanze ultime. Trova
nella rivelazione e nella tradizione limiti insuperabili che
gli vietano ogni possibilità di sviluppo in direzioni
diverse da quelle che esse determinano. Non può combattere
e distruggere le credenze stabilite, opporsi radicalmente alla
tradizione, promuovere o progettare rinnovamenti radicali. La
sua funzione è quella di conservare le credenze stabilite,
non di rinnovarle o rettificarle: è perciò una
funzione subordinata e strumentale, priva della autonomia e
della dignità di una forza direttiva.
Si è già detto che quasi
tutte le F. orientali sono di questa natura: il che ha fatto
talora dubitare che possano chiamarsi filosofie. Ma in realtà
lo stesso mondo occidentale offre frequentemente esempi di F.
di questo genere, per quanto nessuna di esse presenti in tutto
il loro rigore i caratteri ora esposti. Dal nome del più
importante di questi esempi, le forme che questo tipo di F.
ha assunto nel mondo occidentale si possono chiamare scolastiche.
Una scolastica, a differenza di una F. di schietto tipo orientale,
presuppone una F. autonoma e si avvale di essa; ma se ne avvale
per la difesa e l'illustrazione di una verità religiosa
cioè per confermare o difendere credenze la cui validità
si ritiene stabilita in anticipo e indipendentemente da ogni
conferma o difesa. Una scolastica, come dice la parola stessa,
è essenzialmente uno strumento di educazione: serve ad
avvicinare l'uomo, per quanto è possibile, a un sapere
ritenuto immutabile nelle sue linee fondamentali, perciò
non suscettibile di essere rettificato o rinnovato. Tra i compiti,
d'altronde molteplici come sono molteplici le vie di accesso
dell'uomo alla verità e gli ostacoli che si incontrano
su queste vie, che una F. scolastica riconosce a se stessa,
non c'è l'eventuale abbandono delle credenze di cui essa
è l'interprete. Le sètte filosofico-religiose
del II secolo a. C. (per es., gli Esseni), le dottrine di Filone
di Alessandria (I secolo d. C.) e di molti Neoplatonici, la
F. islamica e giudaica, la Patristica e la Scolastica nonché,
nel mondo moderno, l'occasionalismo, l'immaterialismo, la Destra
hegeliana e buona parte dello spiritualismo contemporaneo, sono
scolastiche nel senso ora chiarito: cioè F. che consistono
nell'utilizzare una determinata dottrina (il platonismo, l'aristotelismo,
il cartesianesimo, l'empirismo, l'idealismo, ecc.) per la difesa
e l'interpretazione di credenze che non possono, attraverso
questo lavoro, essere revocate in dubbio, rettificate o negate.
Certamente queste diverse scolastiche posseggono gradi di libertà
diversi e tali gradi variano talvolta, per ciascuna di esse,
da un periodo all'altro. S. Tommaso, per es., mentre conferisce
alla "F. umana" una certa autonomia in quanto riconosce propria
di essa la considerazione e lo studio delle cose create in quanto
tali cioè la loro natura e le loro proprie cause (Contra
Gent., II, 4), ritiene tuttavia impossibile che essa possa
contraddire le affermazioni della fede cristiana la quale dev'essere
assunta come regola del corretto procedere della ragione (Ibid.,
I, 7). Per quanto F. di questo genere possano conseguire risultati
importanti, che entrano a far parte del patrimonio filosofico
comune, il loro ambito è strettamente delimitato dal
problema su cui sono impostate, della difesa delle credenze
tradizionali: le loro possibilità non si estendono alla
rettificazione e al rinnovamento di tali credenze.
Per la seconda alternativa, il sapere è un acquisto o una produzione dell'uomo. Il fondamentodi questa concezione è che l'uomo è un "animale ragionevole" e che perciò "tutti gli uomini, come dice Aristotele all'inizio della Metafisica (980 a 21), tendono per natura al sapere": tendono vuol dire qui che non solo lo desiderano ma possono conseguirlo. Il sapere, da questo punto di vista, non è privilegio o patrimonio riservato di pochi; ognuno può contribuire al suo acquisto e al suo incremento e ha perciò voce in capitolo per giudicarlo: cioè per approvarlo o rigettarlo. La ricerca e l'organizzazione del sapere è, da questo punto di vista, il compito fondamentale della filosofia. Quando Tucidide (II, 40) fa dire a Pericle: "Noi amiamo il bello con moderazione e filosofiamo senza timidezza" esprime certamente l'atteggiamento dello spirito greco dal quale è nata la F. in questo secondo significato del termine. Pericle non alludeva a una disciplina specifica ma alla ricerca del sapere condotta senza impegni pregiudiziali o con l'unico impegno di saggiare e mettere a prova ogni credenza possibile. In questo senso la F. è una creazione originale dello spirito greco e una condizione permanente della cultura occidentale. Essa è l'impegno che ogni ricerca, in qualsiasi campo condotta, obbedisca soltanto alle limitazioni o alle regole che essa stessa riconosca valide in vista della propria possibilità e della propria efficacia discopritrice o confermatrice. La F. in questo senso si contrappone alla tradizione, al pregiudizio, al mito, e in generale alla credenza infondata o non giustificata che i Greci chiamavano opinione. Il contrasto tra l'opinione e la scienza, tra l'amore dell'opinione e l'amore della sapienza, è quello su cui più frequentemente insiste Platone nel chiarire il concetto di F. (Rep., V, 480 a). La F. come ricerca è da Platone contrapposta da un lato all'ignoranza dall'altro alla sapienza. L'ignoranza è l'illusione della sapienza e distrugge l'incentivo della ricerca (Conv., 204 a). Dall'altro lato la sapienza, che è il possesso della scienza, rende inutile la ricerca: gli Dei non filosofano (Ibid., 204 a; Teet., 278 d). La ricerca definisce lo status proprio della filosofia. Già Eraclito aveva detto: "E' necessario che gli uomini filosofi siano buoni indagatori di molte cose" (Fr. 35, Diels). In quanto ricerca, la F. è "acquisto", come diceva Platone (Eutid., 288 d), o "sforzo", come dicevano gli Stoici (Sesto Empirico, Adv. Math., IX, 13) o "attività", come dicevano gli Epicurei (Ibid., XI, 169).
Ma se la F. è l'impegno che fa del sapere
una ricerca, essa condiziona il sapere effettivo, che è "conoscenza"
o "scienza". Nel giudizio che la F. stessa dà su di esso,
questo condizionamento può assumere tre forme che definiscono
tre concezioni fondamentali della F., quella metafisica, quella
positivistica e quella critica. 1° Per la prima di esse, la F.
è l'unico sapere possibile e le altre scienze, in quanto
tali coincidono con essa o sono parti o preparazione di essa; 2°
per la seconda di esse, la conoscenza è propria delle scienze
particolari e la F. ha il compito di coordinare o unificare i loro
risultati; 3° per la terza di essa, la F. è giudizio sul
sapere cioè valutazione delle sue possibilità e dei
suoi limiti, in vista del solo suo uso umano.
1° La prima concezione della F. è quella
metafisica, dominante nell'antichità e nel Medioevo e che
ancora oggi è propria di molti indirizzi filosofici. La sua
caratteristica principale è la negazione di ogni possibilità
di ricerca autonoma fuori della filosofia. Una conoscenza o è
conoscenza filosofica o non è conoscenza affatto. Si ammette
spesso che esista fuori della F., un sapere imperfetto, provvisorio,
preparatorio; ma si nega che tale sapere possegga per suo conto,
validità conoscitiva. Così Platone da un lato chiama
"F." la geometria e le altre scienze specialmente in riferimento
alla loro funzione educativa (Teet., 143 d; Tim.,
88 c); dall'altro considera tali scienze (aritmetica e geometria,
astronomia e musica) come semplicemente propedeutiche alla F. vera
e propria cioè alla dialettica, la quale avrebbe fra l'altro
il compito di "scoprire la comunanza e la parentela reciproca delle
scienze e dimostrare le ragioni per cui sono connesse l'una con
l'altra" ( Rep. VII, 531 d). Aristotele definisce la F. come
la "scienza della verità" (Met., II, 1, 993 b 20)
nel senso che essa comprende tutte le scienze teoretiche cioè
la F. prima, la matematica e la fisica e lascia fuori di sé
soltanto l'attività pratica: ma anche questa deve ricorrere
alla F. per essere in chiaro della propria natura e dei propri fondamenti.
Sia Platone che Aristotele ammettono come scienza prima una disciplina
determinata, che per Platone è la dialettica, per Aristotele
è la F. prima o teologia, ma questa disciplina determinata
è per essi anche la più generale. La dialettica infatti,
come si è visto, consente di intendere il collegamento e
la natura comune delle scienze; e la F. prima, come scienza dell'essere
in quanto essere, ha per oggetto specifico quell'essenza necessaria
o sostanza, che è compito di ogni scienza indagare
nel suo campo particolare (De part. anim., I, 5, 645 a 1).
Altre volte, invece, la F. viene risolta nelle discipline particolari
senza che nessuna di esse risulti privilegiata. Così facevano
gli Epicurei che la dividevano in canonica, fisica ed etica (Diog.
L., X,29-30); e gli Stoici che la dividevano in logica, fisica ed
etica (Aezio, Plac.,I,2) considerando queste tre parti unite
fra loro come le membra di un animale (Diog. L., VII, 40).
Questa concezione, che identifica l'intero sapere
con la F. e si rifiuta di riconoscere che ci sia o possa esserci
un sapere autentico fuori di essa, è sopravvissuta anche
alla costituzione delle scienze particolari in discipline autonome
e s'è conservata sostanzialmente immutata, in certe correnti
filosofiche, sino ai giorni nostri. La definizione che Fichte dette
della F. come di una "scienza della scienza in generale" (Über
den Begriff der Wissenschaftslehre oder sogenannten Philosophie,
1794, § 1) non lascia alcuna autonomia alle scienze particolari
perché, secondo quella definizione, la dottrina della scienza
"deve dare la sua forma non soltanto a se stessa ma anche a tutte
le altre scienze possibili" e costituire così il "sistema
compiuto ed unico nello spirito umano" (Ibid., § 2). Questa
pretesa si è mantenuta inalterata in tutte le definizioni
che l'idealismo romantico ha dato della filosofia. Non altro significato
hanno le notazioni di Schelling, secondo il quale il compito della
F. è di chiarire l'accordo (che è poi identità)
dell'oggettivo e del soggettivo cioè della natura e dello
spirito, e nel portare così a compimento la "tendenza necessaria
di tutte le scienze naturali" (System des transzendentalen Idealismus,
1800, Intr., § 1). Esplicitamente Hegel affermava che "le scienze
particolari si occupano degli oggetti finiti e del mondo dei fenomeni"
(Geschichte der Philosophie, Intr., A, § 2; trad. ital.,
I, pag. 69); e che "altra cosa è il processo di origine e
i lavori preparatori di una scienza, altra cosa la scienza stessa"
nella quale quelli scompaiono per essere sostituiti dalla "necessità
del concetto" (Enc., § 246). Questo vuol dire che solo
la F. è scienza perché solo essa dimostra "la necessità
del concetto", utilizzando e manipolando a suo modo (come Hegel
in realtà fece) il materiale apprestato dalle cosiddette
scienze empiriche. Pertanto Hegel riservava alla F. il privilegio
di essere "la considerazione pensante degli oggetti" (Ibid.,
§ 2). La conoscenza preliminare o preparatoria è quella
che si appoggia su rappresentazioni; la conoscenza vera e propria
si ha quando, con la F., "lo spirito pensante, attraverso le rappresentazioni
e lavorando sopra di esse, progredisce alla conoscenza pensante
e al concetto" (Ibid., § 1). E' chiaro che, espresso in
questa forma, il concetto come totalità del sapere è
una professione di superbia filosofica, che era estranea a questo
stesso concetto nell'età classica. In questa età,
infatti, quel concetto agiva come lo specifico impegno delle discipline
scientifiche che da esso venivano immesse nella sfera della ricerca
disinteressata e incoraggiate e sorrette nel loro costituirsi concettuale.
Ma nella concezione dell'idealismo romantico, le scienze particolari
vengono abbassate alla funzione di una mera manovalanza, priva di
qualsiasi validità intrinseca. A questa stessa funzione riducono
la scienza sia l'idealismo, sia lo spiritualismo. La definizione
della F. come "teoria generale dello spirito" porta Gentile a considerarla
come la coscienza che l'Io assoluto ha di se stesso: coscienza di
cui le conoscenze empiriche fondate sulla distinzione dell'oggetto
dal soggetto e degli oggetti tra di loro, è una falsa astrazione
(Teoria generale dello spirito, 1916, cap. 15, § 2). E
nonostante la meno appariscente formulazione, la definizione data
da Croce della F. come "metodologia della storiografia", implica
la stessa superbia filosofica. Per Croce la conoscenza storica è
l'unica conoscenza possibile, dato che la storia è l'unica
realtà: pertanto la riduzione della F. a metodologia di tale
conoscenza equivale a negare che sia conoscenza il sapere scientifico:
che, infatti, è, per Croce, non un sapere ma un insieme di
espedienti pratici (La storia, 1938, pag. 144; Logica,
1908, I, cap. 2). Dall'altro lato, lo spiritualismo contemporaneo
segue prevalentemente la stessa strada. Bergson fa dell'intuizione
l'organo della F. perché vede nell'intuizione "la visione
diretta dello spirito da parte dello spirito" (La pensée
et le mouvant, 3a ediz.,1934, pag. 51) cioè
lo strumento per attingere, immediatamente e infallibilmente, quella
"durata reale" che è la realtà assoluta. Il suo riconoscimento
della scienza come conoscenza adeguata del mondo materiale o delle
"cose" è puramente fittizio: né la materia né
le cose hanno per Bergson realtà come tali perché
non sono che coscienza e la coscienza può essere autenticamente
conosciuta soltanto dalla coscienza stessa: "Sondando la sua propria
profondità la coscienza non penetra pure nell'interno della
materia, della vita, della realtà in generale? Si potrebbe
contestarlo solo se la coscienza si aggiungesse alla materia come
un accidente, ma noi crediamo d'aver mostrato che una simile ipotesi
è assurda o falsa, secondo il lato per cui la si prende,
contraddittoria in se stessa o contraddetta dai fatti" (Ibid.,
pag. 156-57). Il concetto della F. come conoscenza privilegiata
(su qualsiasi titolo poi si appoggi il privilegio) non è
che una delle tante espressioni del vecchio concetto della F. come
sapere unico ed assoluto. Le tendenze che si sogliono chiamare "metafisiche"
del pensiero moderno sono appunto caratterizzate da questo concetto
della filosofia. Husserl così espone l'ideale cartesiano
della F. che egli dichiara di far proprio: "Ricordiamo l'idea direttiva
delle Meditazioni di Cartesio. Essa mira a una riforma totale
della F. per fare di questa una scienza a fondamenti assoluti. Questo
implica, per Cartesio, una riforma parallela di tutte le scienze
giacché queste non sono che membri di una scienza universale
che non è altro che la filosofia. Solo nell'unità
sistematica di questa, esse possono diventare veramente scienze"
(Cart., Med., 1931, § 1). Nella sua ultima opera
Husserl poneva, come prima condizione della filosofia: "un'epoché
da qualsiasi assunzione delle nozioni delle scienze oggettive, da
qualsiasi presa di posizione critica intorno alla verità
o falsità della scienza, un'epoché persino dall'idea
direttiva della scienza, dall'idea di una conoscenza oggettiva del
mondo" (Krisis, § 35).
Alla stessa negazione della scienza mettono capo,
nonostante l'ampio riconoscimento della validità del metodo
scientifico, le considerazioni di Jaspers sulla natura della F.,
giacché negano autonomia di struttura e di validità
alle scienze particolari (Phil., I, pag. 53 sgg.; Existenzphil.,
1938, Intr.). Una svalutazion ancora più radicale delle scienze
particolari è effettuata da Heidegger, per il quale i presupposti
della scienza moderna sono l'oblio dell'essere, la riduzione dell'uomo
a soggetto e del mondo a rappresentazione (Brief über den
"Humanismus", in Platos Lehre von der Wahrheit, 1947,
pag. 88).
2° La seconda concezione della F. come giudizio
sul sapere è quella che tende a risolverla nelle scienze
particolari, affidandole talvolta la funzione specifica di unificare
le scienze stesse o di raccoglierne i risultati in una "visione
del mondo". L'origine di questa concezione si può vedere
in Bacone, il quale concepì la F. come una scienza che in
primo luogo dividesse e classificasse le scienze particolari e poi
mettesse tali scienze in possesso del loro metodo, del materiale
di cui disporre e delle tecniche con cui utilizzare questo materiale
a vantaggio dell'uomo. Nel De Dignitate et augmentis scientiarum
(1623), abbozzando il piano di una enciclopedia delle scienze su
base sperimentale, Bacone affidava alla "F. prima" da lui considerata
come "scienza universale e madre delle altre scienze" il compito
di raccogliere "gli assiomi che non sono propri delle scienze particolari
ma comuni a più scienze" (De Augm. Scient., III, 1).
Hobbes a sua volta identificava la F. con la conoscenza scientifica.
"La F., egli dice, è la conoscenza acquisita, attraverso
il corretto ragionamento, degli effetti o fenomeni a partire dai
concetti delle loro cause o generazioni; o reciprocamente la conoscenza
acquisita delle generazioni possibili a partire dagli effetti conosciuti"
(De Corp., 1, § 2). Da questo concetto della F. come coincidente
con la conoscenza scientifica e come impegno di chiarirla ed estenderla
derivò quell'uso inglese del termine sul quale già
Hegel richiamava l'attenzione (Enc., § 7 e nota; Geschichte
der Phil., Intr., A, 2; trad. ital., I, pag. 70) secondo il
quale il termine si applicava non solo alla scienza della natura
ma anche a certi strumenti come termometri, barometri, ecc., nonché
ai principi generali della politica: un uso, quest'ultimo, che si
è conservato nei paesi anglosassoni. Per lo stesso Cartesio,
la F. comprendeva "tutto ciò che lo spirito umano può
sapere" e così veniva in larga misura a coincidere con le
ricerche scientifiche, che d'altronde Cartesio voleva tutte ricondotte
a certi principi fondamentali (Princ. Phil., Pref.). L'intero
Illuminismo condivise il concetto della F. come conoscenza scientifica.
"Filosofo, amatore della saggezza cioè della verità",
diceva Voltaire (Dict. Phil., art. Philosophe). E lo stesso
Wolff ammetteva, accanto alle scienze "razionali" in cui divideva
la F., corrispondenti scienze empiriche, dotate di un metodo autonomo,
che è quello sperimentale. Per es., accanto alla cosmologia
generale scientifica, Wolff ammette una cosmologia sperimentale
"che trae dalle osservazioni la teoria che è stabilita o
è da stabilirsi nella cosmologia scientifica (Cosm.,
§ 4); e riconosce che è possibile, sebbene non facile
che l'intera teoria della cosmologia generale sia derivata dalle
osservazioni (Ibid., § 5).
Nell'ambito di questo significato, il positivismo
sottolineò la funzione propria della filosofia di riunire
e coordinare i risultati delle scienze in modo da realizzare una
conoscenza unificata e generalissima. Questo fu il compito che alla
F. assegnarono Comte e Spencer. Comte vuole che accanto alle scienze
particolari ci sia uno "studio delle generalità scientifiche",
che egli fa corrispondere alla "F. prima" di Bacone. Questo studio
dovrebbe determinare esattamente lo spirito di ciascuna scienza,
scoprire le relazioni e il concatenamento fra le scienze, riassumere,
possibilmente, tutti i loro principi propri nel minimo numero di
principi comuni conformandosi incessantemente alle massime fondamentali
del metodo positivo" (Cours de phil. positive, lez.
1a, § 7; lez. 2a, § 3). Il concetto
della F. come scienza generalizzatrice e unificatrice dei risultati
delle altre scienze è stato ed è largamente diffuso
nella F. moderna e contemporanea. E' stato infatti accettato non
solo dalle correnti positivistiche ma anche da dottrine spiritualistiche;
le quali ultime talora hanno aggiunto ad esso una condizione limitatrice:
quella generalizzazione o unificazione deve costituire un'immagine
del mondo che soddisfi i bisogni del cuore. Questa è
la definizione appunto che della F. dette Wundt: che riconobbe la
sua funzione nella "ricapitolazione delle conoscenze particolari
in una intuizione del mondo e della vita che soddisfi le esigenze
dell'intelletto e i bisogni del cuore" (Syst. der Phil.,
4a ediz., 1919, I, pag.1; Einleitung in
die Phil, 3a ediz., 1904, pag.5). Da questo punto
di vista la F. " è la scienza universale che deve unificare
in un sistema coerente le conoscenze universali fornite dalle scienze
particolari": un concetto che ricorre molto frequentemente nella
letteratura filosofica degli ultimi decenni del secolo XIX e nei
primi del sec. XX in quanto permette alla F. di utilizzare ampiamente
i risultati che la ricerca positiva consegue sia nel campo delle
scienze naturali sia in quello delle scienze dello spirito. Talvolta
si tende ad accentuare, in questa direzione, il carattere unitario
e totalitario di questa scienza universale; in tal caso, come nella
definizione di Wundt, la si considera come una intuizione
o visione del mondo. Questo concetto è una
determinazione ulteriore del concetto della F. come "scienza universale"
cioè unificatrice e generalizzatrice. Dice Mach: "Il filosofo
cerca di orientarsi nell'insieme dei fatti in un modo universale,
il più completo possibile\'85Solo la fusione delle scienze
speciali apporterà la concezione del mondo verso la
quale tendono tutte le specialità" (Erkenntniss und Irrtum,
cap. 1; trad. franc., pag. 14-15). Dilthey mostrò bene questa
connessione tra la F. e le scienze speciali quando scrisse: "La
storia della F. trasmette al lavoro filosofico sistematico i tre
problemi della fondazione, della giustificazione e della connessione
delle scienze particolari, insieme al compito di affrontare il bisogno
inesauribile della riflessione ultima sull'essere, sul fondamento,
sul valore, sullo scopo e sulla loro connessione nella intuizione
del mondo, quali che siano la forma e la direzione in cui tale compito
viene eseguito" (Das Wesen der Philosophie, in fine; trad.
ital., in Critica della ragione storica, pag. 487). Il rapporto
tra la fondazione e l'unificazione delle scienze e l'intuizione
del mondo (in cui propriamente consiste la metafisica) è
da Simmel configurato come la distinzione tra i due limiti che definiscono
il campo della ricerca filosofica. "L'uno comprende le condizioni,
i concetti fondamentali, i presupposti della ricerca particolare
i quali non possono in questa trovare soddisfacimento poiché
stanno piuttosto già alla sua base, nell'altro questa ricerca
particolare viene condotta a completamento e a connessione e messa
in rapporto con questioni e concetti che non hanno nessun posto
entro l'esperienza e il sapere oggettivo immediato. Quella è
la teoria della conoscenza, questa è la metafisica del campo
particolare in questione" (Soziologie, 1910, pag. 25; cfr.
P. Rossi, Lo storicismo tedesco contemporaneo, Torino, 1956,
pag. 242 sgg.). Ora il primo di questi compiti è quello che
la F. critica aveva riconosciuto proprio della F. (v. oltre); il
secondo di essi è invece quello che aveva attribuito alla
F. l'indirizzo positivistico che fa capo a Bacone. L'ultima manifestazione
di questo concetto della F. nel pensiero contemporaneo è
la nozione di " scienza unificata", propria del neo-empirismo, alla
quale è dedicata l'Enciclopedia internazionale della scienza
unificata (dal 1938 in poi). In quest'opera tuttavia il concetto
stesso di unificazione è incerto ed è inteso in modo
diverso dai suoi diversi sostenitori. Neurath la intende come la
combinazione dei risultati delle varie scienze e l'assiomatizzazione
di essi in un sistema unico; Dewey come esigenza di estendere il
posto e la funzione della scienza nella vita umana; Russell come
unità di metodo; Carnap come unità formale o linguistica;
e Morris come dottrina generale dei segni (Intern. Encycl. of
Unified Science, I, 1, pag. 20, 33, 61, 70). Il concetto della
filosofia come unificazione o generalizzazione del sapere scientifico
continua tuttavia a ripresentarsi nel mondo contemporaneo; Whitehead,
ad es., lo sostiene (Adventures of Ideas, 1933, IX, §
2).
3° La terza concezione della F. come giudizio
sul sapere è quella che si può chiamare critica
e che consiste nel ridurre la F., sotto questo rispetto, a dottrina
della conoscenza o a metodologia. Secondo questa concezione la F.
non accresce la quantità del sapere stesso: essa perciò,
non può propriamente chiamarsi "conoscenza". Il suo compito
è piuttosto di saggiare la validità del sapere, determinando
i limiti e le condizioni di esso: le sue possibilità
effettive. L'iniziatore di questo concetto della F. è Locke.
Già l'intero Saggio è nato, come egli avverte
nella "Epistola al lettore" che vi è premessa, dal bisogno
di "esaminare la capacità della mente umana e vedere quali
oggetti siano alla sua portata e quali invece superiori alla sua
comprensione". Più esattamente ancora la F. tende a scoprire
"quali sono le possibilità dell'intelligenza, quale sia l'estensione
di queste possibilità, a quali cose esse siano in certa misura
proporzionate e dove il loro soccorso ci viene a mancare" (Saggio,
Intr., § 4). I limiti delle capacità umane sono da Locke
chiaramente riassunti nel terzo capitolo del libro IV del Saggio.
Ma ancora più chiaramente, per ciò che riguarda la
F., tali limiti risultano dall'ultimo capitolo dell'opera dedicato
alla divisione delle scienze. Si distinguono in esso tre scienze
principali: la F. naturale o fisica il cui compito è "la
conoscenza delle cose, quali sono nel loro essere proprio, e la
loro costituzione, le loro proprietà e operazioni"; la F.
pratica o etica che è "l'arte di ben dirigere i nostri poteri
e i nostri atti al raggiungimento di cose buone e utili"; e la dottrina
dei segni o semiotica o logica il cui compito è di "considerare
la natura dei segni di cui fa uso lo spirito per l'intendimento
delle cose o per trasmettere ad altri la sua conoscenza" (Ibid.,
IV, 21, § 2-4). In questa divisione delle scienze manca la F.:
il che vuol dire che la F. per Locke non è una scienza nel
senso in cui la fisica, l'etica o la logica lo sono, cioè
come conoscenza di oggetti, ma è giudizio sulla scienza stessa
cioè critica. Questo punto di vista costituisce uno dei filoni
principali della F. moderna e contemporanea. Hume riconosceva il
compito della F. accademica o scettica, da lui professata, nella
"limitazione delle nostre ricerche a quelle materie che meglio si
adattano alla ristretta capacità dell'intelligenza umana"
(Inq. Conc. Underst., XII, 3). Da Kant la limitazione della
conoscenza è assunta come fondamento della validità
della conoscenza stessa, secondo un concetto che già Locke
aveva utilizzato. Per Kant infatti sia le condizioni a priori della
conoscenza (intuizioni pure, categorie), sia le condizioni a
posteriori di essa (il dato empirico o intuizione) determinano
e limitano le possibilità conoscitive nel senso che non solo
escludono certi campi di indagine ma anche fondano la validità
o l'effettività delle possibilità stesse. Kant esprimeva
l'intero campo della F. con le seguenti domande: 1° che cosa
posso sapere?; 2° che cosa devo fare?; 3° che cosa posso sperare?,
4° che cosa è l'uomo? "La metafisica, aggiungeva Kant,
risponde alla prima questione, la morale alla seconda, la religione
alla terza, e l'antropologia alla quarta; ma in fondo si potrebbe
tutto ricondurre all'antropologia, perché le tre prime questioni
si riportano all'ultima. Il filosofo deve per conseguenza poter
determinare: l° la sorgente del sapere umano; 2° l'ambito
dell'uso possibile e utile di tutto il sapere; e infine 3° i
limiti della ragione" (Logik, Intr., III). L'obiezione di
Hegel contro questo punto di vista, che "voler conoscere prima che
si conosca è assurdo non meno del saggio proposito di quel
tale scolastico di imparare a nuotare prima di arrischiarsi nell'acqua"
(Enc., § 10), è una pura boutade. Giacché
la F. come critica suppone che si sappia già nuotare, che
ci sia già un sapere costituito (quello della scienza), a
partire dal quale si possono indagare le possibilità di conoscere
e determinare i loro limiti. Della dottrina kantiana, il neocriticismo
contemporaneo ha modificato il punto concernente la religione; e,
mantenendo fermo il concetto della F. come critica del sapere, ha
riconosciuto tre discipline filosofiche e precisamente la logica,
l'etica e l'estetica; per logica intendendo, il più delle
volte, la teoria della conoscenza. Questa dottrina veniva difesa
dalla cosiddetta scuola di Marburgo (Cohen, Natorp, Cassirer) nonché
dal criticismo francese (Renouvier, Brunschvicg). Il primato che
la gnoseologia o teoria della conoscenza ha tenuto nella F. contemporanea
(e non solo presso le correnti neocriticistiche) è una conseguenza
del concetto della F. come critica del sapere. La gnoseologia o
teoria della conoscenza (v.) è tuttavia caratterizzata da
particolari presupposti e problemi; pertanto il concetto della F.
come critica del sapere non implica l'identificazione della F. con
la dottrina della conoscenza o gnoseologia. Quel concetto rimane
infatti, anche dopo la crisi e l'abbandono della gnoseologia ottocentesca,
nella forma di analisi dei procedimenti effettivi della conoscenza
scientifica e determinazione dei loro limiti e della loro validità.
Questa analisi è il tema proprio della metodologia
(v.). La metodologia si può pertanto considerare l'ultima
incarnazione della F. come critica del sapere. Come parte della
metodologia o come ulteriore restrizione del suo compito, si può
intendere la definizione della F., come "analisi del linguaggio"
che è stata proposta per la prima volta da Wittgenstein nel
Tractatus logico-philosophicus (1922). Wittgenstein, attribuendo
"la totalità delle proposizioni vere" alla scienza naturale,
nega che la F. sia una scienza naturale: questa parola, egli dice
"deve significare qualcosa che sta al di sopra o al di sotto delle
scienze della natura, non a fianco di esse" (Tract., 4. 111).
Compito della F. diventa allora la chiarificazione logica del linguaggio.
"La F. non è una dottrina ma un'attività. Un'opera
filosofica consiste essenzialmente in delucidazioni. Frutto della
F. non sono 'proposizioni filosofiche' bensì il chiarificarsi
delle proposizioni. La F. deve rendere chiare e delimitare con precisione
le idee che altrimenti sarebbero, per così dire, torbide
e confuse" (Ibid., 4. 112).
II. La filosofia e l'uso del sapere. - Il
secondo punto di vista dal quale possono essere cercate costanti
nei significati storicamente attribuiti alla F. e quindi effettuare
divisioni o articolazioni di tali significati è quello espresso
nella seconda parte della definizione che è stata assunta
come punto di partenza di questo articolo: cioè quello per
il quale la F. è l'uso umano del sapere. Due interpretazioni
fondamentali sono state storicamente date di questo aspetto della
F., e precisamente: a) quella per cui la F. è contemplativa
e costituisce una forma di vita che è fine a se stessa; b)
quella per cui la F. è attiva e costituisce lo strumento
di modificazione o di correzione del mondo naturale od umano. Secondo
la prima interpretazione, la F. si esaurisce nell'individuo che
filosofa; per la seconda interpretazione, la F, trascende l'individuo
e concerne propriamente i rapporti con la natura o con gli uomini,
quindi la vita umana associata. Per servirsi di un termine di chiaro
significato storico, si può chiamare "illuministica" questa
seconda interpretazione della filosofia.
a) Il concetto della F. come contemplazione
è proprio, in primo luogo, delle F. di tipo orientale che
pongono come scopo della F. la salvezza dell'uomo. La salvezza è
difatti la liberazione da ogni rapporto con il mondo e pertanto
la realizzazione di uno stato in cui ogni attività è
impossibile o priva di senso. In Occidente, il concetto della F.
come contemplazione non è stata la prima forma che il lavoro
filosofico ha assunto (e che è stata invece quella della
"saggezza" cioè della F. attiva e militante) ma è
stata la prima caratterizzazione esplicita di questo lavoro. Il
fondamento di tale caratterizzazione è la natura "disinteressata"
della ricerca filosofica. Quando Erodoto (I, 30) fa dire da re Creso
a Solone: "Ho udito parlare dei viaggi che filosofando hai
intrapreso per vedere molti paesi" allude ovviamente al carattere
disinteressato di questi viaggi che non sono stati intrapresi per
scopi di lucro o di politica ma solo a scopo di conoscenza. Platone
stesso contrapponeva lo spirito scientifico dei Greci all'amore
del guadagno proprio degli Egiziani e dei Fenici (Rep., IV,
435 e). E che la ricerca del sapere non possa essere subordinata
o piegata a fini estranei è cosa che risulta dalla stessa
nozione di questa ricerca, quale appunto si è venuta configurando
nella Grecia antica (cfr. I, B). Ma già nel racconto riferito
a Pitagora che deriva da uno scritto di Eraclide Pontico (Diog.
L., Proemium, 12) col quale si intende giustificare il nome
di F., c'è qualcosa in più della semplice esigenza
del disinteresse della ricerca. Secondo quella tradizione, riportata
da Cicerone nelle Tusculane (V, 9), Pitagora paragonava la
vita alle grandi feste di Olimpia dove alcuni convengono per affari,
altri per partecipare alle gare, altri per divertirsi e alfine alcuni
soltanto per vedere ciò che avviene: questi ultimi
sono i filosofi. Qui è sottolineato il distacco tra il filosofo
interessato solo a vedere, cioè a contemplare disinteressatamente,
e la comune umanità dedita alle sue faccende. La superiorità
della contemplazione sull'azione è pertanto implicita in
questo racconto che probabilmente aveva lo scopo di nobilitare,
col richiamo a Pitagora, il concetto della F. che si andava formando
nella scuola di Aristotele. Il carattere contemplativo della F.
(che non ha nulla a che fare con il carattere disinteressato della
ricerca in generale), come una delle risposte possibili al problema
dell'uso umano del sapere, è stato per la prima volta affermato
e giustificato da Aristotele. Quel carattere è infatti fondato
sulla natura necessaria dell'oggetto della F., che è ciò
che "non può essere altrimenti da quello che è" (Et.
Nic., VI, 3, 1139 b 19). Da questo punto di vista la F. è
sapienza, non saggezza: giacché la saggezza consiste nel
deliberar bene, ma nulla c'è da deliberare intorno alle cose
che non possono essere altrimenti (Ibid., VI, 5, 1140 a 30).
Su questa base Aristotele stabilisce un contrasto tra saggezza e
sapienza (v.). Uomini come Anassagora e Talete sono sapienti
e non saggi: essi non indagano sui beni umani, non conoscono ciò
che giova a loro stessi ma solo cose eccezionali, meravigliose,
difficili e divine. "Nessuno, dice Aristotele, delibera intorno
a ciò che non può essere altrimenti o intorno alle
cose che non hanno un fine o il cui fine non è un bene realizzabile"
(Ibid., VI, 7, 1041 b 10). Ma qual è, da questo punto
di vista, l'uso possibile del sapere? Uno solo: la realizzazione
di una vita contemplativa cioè dedita alla conoscenza del
necessario. L'attività contemplativa è pertanto considerata
da Aristotele come la più alta e beatifica: essa fa dell'uomo
qualcosa di superiore all'uomo stesso perché è conforme
a ciò che di divino c'è in lui (Ibid., X, 7,
1177 b 26). La dottrina di Aristotele ha così fissato i punti
seguenti intorno all'uso umano del sapere: 1° la F., in quanto
ha per oggetto il necessario, non offre all'uomo nulla da fare ed
è perciò contemplazione; 2° la contemplazione è
una forma di vita individuale privilegiata perché è
la beatitudine stessa. Le due tesi sono tipiche di questa concezione
della F., che ricorre frequentemente nella storia del pensiero occidentale.
Intanto essa domina tutta la F. greca post-aristotelica; la quale
coltiva l'ideale del "sapiente" cioè di colui nel quale si
realizza la vita contemplativa. Epicurei, Stoici, Scettici e Neoplatonici
concordano nel ritenere che il sapiente solo può esser felice
perché egli soltanto, come puro contemplante, è autosufficiente.
Il fine che questi filosofi attribuiscono alla F. è individuale
e privato: la realizzazione di una forma di vita che chiude il sapiente
in se stesso e nella sua contemplazione solitaria. Anche da questo
punto di vista, ovviamente, la F. è uno sforzo di trasformazione
o di rettificazione della vita umana; perciò non è
vera alla lettera l'affermazione di Aristotele che essa non dà
nulla da fare. Questa affermazione significa solo che essa non modifica
la struttura del mondo, della conoscenza che concerne il mondo e
delle forme di vita associata; mentre può modificare la vita
dell'individuo rendendolo sapiente e beato.
E' facile riconoscere da questi tratti l'atteggiamento
contemplativo in filosofia. Quando Spinoza dice: "L'uomo forte considera
principalmente che tutte le cose seguono dalla necessità
della natura divina e che quindi tutto ciò che crede molesto
e cattivo e tutto ciò che inoltre appare empio, orrendo,
ingiusto e turpe nasce dal fatto che egli concepisce le cose stesse
torbidamente, parzialmente e confusa mente" (Et., IV, 73,
scol.) esprime, nella sua forma classica, il concetto contemplativo
della filosofia. E quando Hegel afferma che la F., come la nottola
di Minerva che inizia il suo volo sul far del crepuscolo, giunge
sempre a cose fatte e quindi troppo tardi per dire come deve essere
il mondo, esprime lo stesso concetto (Fil. del Dir.,
Pref.). Difatti per Hegel, come per Aristotele e Spinoza, l'oggetto
della F. è il necessario, il suo compito è precisamente
quello di mostrare la necessità di ciò che esiste,
cioè la razionalità del reale (Enc., § 12).
Da questo punto di vista la F. è la giustificazione razionale
della realtà: per realtà intendendosi non solo quella
della natura ma anche quella delle istituzioni storico-sociali cioè
del mondo umano. Non molto diverso, era da questo punto di vista
il concetto che della F. aveva Schopenhauer. "Rispecchiare astrattamente,
universalmente e limpidamente in concetti l'intera essenza del mondo,
egli diceva, e così, quale immagine riflessa, deporla nei
permanenti e ognora disposti concetti della ragione: questa e non
altro è F." (Die Welt, 1, § 68).
Nella F. contemporanea il concetto della F. come
contemplazione rimane nella fenomenologia e nello spiritualismo.
La fenomenologia è lo sforzo di realizzare, mediante l'epoché,
il punto di vista di uno "spettatore disinteressato" cioè
di un soggetto che non sia a sua volta sottoposto alle stesse condizioni
limitative che egli prende a considerare. Dice Husserl: "L'io della
meditazione fenomenologica può divenire lo spettatore imparziale
di se stesso, non soltanto nei casi particolari ma in generale;
e questo, 'se stesso' comprende ogni oggettività che esista
per lui, tale quale esiste per lui" (Cart. Med., § 15).
E nell'ultima opera Husserl vede nella filosofia "il movimento storico
della rivelazione della ragione universale, innata come tale nell'umanità"
(Krisis, § 6) e le attribuisce il compito di portare la
ragione "alla propria autocomprensione, a una ragione che comprenda
concretamente se stessa, che comprenda di essere un mondo, un mondo
che è nella propria verità universale" (Ibid.,
§ 73). Dall'altro lato Bergson, distinguendo la F. come intuizione
o coscienza della durata temporale (cioè del divenire
della coscienza) dalla scienza come conoscenza dei fatti, vede nella
scienza "l'ausiliare dell'azione" e nella F. un'attività
contemplativa. "La regola della scienza, egli dice, è quella
che è stata posta da Bacone: obbedire per comandare. Il filosofo
non obbedisce né comanda: cerca di simpatizzare" (La pensée
et le mouvant, 3a ediz., 1934, pag. 158). L'idoleggiamento
del "sapiente" come di una condizione umana privilegiata o perfetta
o della F. come della forma finale e conclusiva dell'essere sono
due dei tratti caratteristici da cui si può riconoscere la
concezione della F. come contemplazione. A questa concezione appartengono
le forme dello scetticismo antico e moderno. Quando Sesto Empirico
addita come fine della F. scettica l'imperturbabilità che
essa consente di realizzare (Ip. Pirr., I, 25); o quando
Hume riduce il motivo del suo filosofare, che ritiene incapace di
agire sulle credenze più radicate dell'uomo, al piacere che
ne ricava (Treatise, I, 4, 7; Inq. Conc. Underst.,
XII, 3); entrambi attribuiscono alla F. una funzione contemplativa
che si esaurisce nell'ambito della vita individuale. E nello stesso
ambito si esaurisce la funzione della F. come "terapia" della F.,
cioè come liberazione dai dubbi filosofici, della quale parlano
Wittgenstein (Philosophical Investigations, § 133) e alcuni
filosofi inglesi suoi seguaci (cfr. Revolution in Phil.,
1956, pag. 106, 112 sgg.). Non sembra infatti che questi filosofi
attribuiscano alla terapia filosofica altra funzione se non quella
di liberare l'individuo dai dubbi filosofici e così permettergli
di "sentirsi meglio" al modo in cui Hume si sentiva meglio coi suoi
dubbi scettici.
b) Il concetto della F. come attività
direttiva o trasformatrice è già presente nella leggenda
dei Sette Savi che è stata per la prima volta riportata da
Platone (Prot., 343 a). I Sette Savi furono moralisti e politici
e i loro motti si riferiscono alla condotta della vita e ai rapporti
con gli uomini (v. Savi, Sette). Ma il primo grande esempio di una
F. esplicitamente concepita allo scopo di trasformare il mondo umano
è quella di Platone, la quale è diretta interamente
a modificare la forma della vita associata e a fondarla sulla giustizia.
L'educazione del filosofo culmina, non già nella visione
del bene ma nel "ritorno nella caverna": giacché il filosofo
deve porre a disposizione della comunità i risultati della
sua speculazione e utilizzarli per la guida e la direzione di essa.
"Ciascuno di voi, dice Platone, deve a sua volta discendere nella
dimora comune e abituarsi a contemplare gli oggetti nelle tenebre:
perché abituandosi a queste, vedrà assai meglio di
quelli che sono rimasti sempre laggiù e riconoscerà
i caratteri e l'oggetto di ciascuna immagine, perché ha visto
i veri esemplari della bellezza, della giustizia e del bene. Così
noi e voi costituiremo e governeremo la città da svegli e
non già sognando, come avviene ora nella maggior parte delle
città per colpa di coloro che si combattono a causa di ombre
e si contendono il potere come se fosse un bene" (Rep., VII,
520 c). La F. platonica è interamente dominata da questo
impegno educativo e politico: compito della F. non è, per
Platone, quello di dare a un certo numero di uomini la beatitudine
della contemplazione, ma quello di dare a tutti la possibilità
di vivere secondo giustizia (Ibid., 519 e). Questa concezione
attiva della F. è rimasta per lungo tempo inoperante. Solo
nel Rinascimento essa fu ripresa dagli Umanisti che intesero la
F. come saggezza. Nel De Nobilitate Legum et Medicinae tesero
la F. come saggezza, Coluccio Salutati (1331-1406) diceva: "Molto
mi stupisco che tu sostenga che la sapienza consista nella contemplazione
a cui sarebbe serva la prudenza, che starebbe con essa nel rapporto
di un amministratore con il padrone; e che tu dica che la sapienza
è la maggiore delle virtù, propria della parte migliore
dell'anima, cioè dell'intelletto; e che la felicità
consiste nell'operare secondo sapienza. E soggiungi che, essendo
la metafisica la sola scienza libera, il filosofo vuole che la speculazione
preceda in tutto l'azione... Ma la vera sapienza non consiste, come
tu credi, nella pura speculazione. Se togli la prudenza non troverai
nè il sapiente nè la sapienza... Chiameresti infatti
sapiente chi abbia conosciuto cose celesti e divine ma non abbia
provveduto a se stesso, giovato agli amici, alla famiglia, ai congiunti
e alla patria?". Nello stesso spirito Leonardo Bruni nell'Isagogicon
Moralis disciplinae (1424) affermava la superiorità della
F. morale su quella teoretica.
Il successivo affermarsi di questa concezione attiva
della F. caratterizza l'inizio dell'età moderna. Gli umanisti
credevano che solo la F. morale fosse attiva; per Bacone è
attiva anche la F. che ha per oggetto la natura perchè è
diretta a dominare la natura. E Bacone non esita a chiamare "pastorale"
la stessa F. di Telesio, che molto apprezzava e in parte seguiva,
perchè gli sembrava che essa "contemplasse il mondo placidamente
e quasi per ozio" (Works, III, pag. 118). Hobbes insisteva
sulla stessa funzione della F. (De Corp., I, § 6). Cartesio
a sua volta la riteneva diretta a conseguire la saggezza e la scienza
di tutto ciò che riesce utile o vantaggioso per l'uomo (Princ.
Phil., Pref.). Lo stesso scopo direttivo e correttivo attribuirono
alla F. Locke e gli Illuministi. Con Locke, la F. diventa critica
della conoscenza e sforzo di liberazione dell'uomo da ignoranze
e pregiudizi. E tale si mantiene per l'Illuminismo del sec. XVIII,
che vede nella F. lo sforzo della ragione di investire il mondo
umano, liberarlo dagli errori e di farlo progredire. D'Alembert
così descriveva l'azione che la F. esercitava nel suo tempo:
" Dai princìpi delle scienze profane sino ai fondamenti della
rivelazione, dalla metafisica sino alle materie di gusto, dalla
musica sino alla morale, dalle dispute scolastiche dei teologi sino
agli oggetti del commercio, dai diritti dei princìpi sino
a quello dei popoli, dalla legge naturale sino alle leggi arbitrarie
delle nazioni, in una parola dalle questioni che ci toccano di più
a quelle che ci interessano di meno, tutto è stato discusso
e analizzato o almeno agitato. Una nuova luce su alcuni oggetti,
una nuova oscurità su molti altri, sono stati il frutto o
la conseguenza di questa effervescenza generale degli spiriti, come
l'effetto del flusso e riflusso dell'oceano è quello di portare
sulla riva qualcosa e di allontanarne qualche altra" (Oeuvres,
ed. Condorcet, pag. 218). Il concetto illuministico della F. era
partecipato da Kant secondo il quale la F., determinando le possibilità
effettive dell'uomo in tutti i campi, deve illuminare e dirigere
il genere umano nel suo doveroso progresso verso la felicità
universale (Recensione alle "Idee sulla F. della storia"
di Herder, 1784-85; cfr. Critica R. Pura, Dottrina trascendentale
del metodo, Capitolo III, in fine).
Il Romanticismo, insistendo sul carattere necessario,
perchè razionale, dell'essere, ha nel suo complesso, un ritorno
alla concezione contemplativa della filosofia. Lo stesso positivismo
che intendeva esplicitamente rifarsi alla dottrina baconiana del
sapere come possibilità di dominio sulla natura, non sempre
rimane fedele al riconoscimento del carattere attivo della
filosofia. Se per il positivismo (v.) di stampo sociale (St.-Simon,
Proudhon, Comte, Stuart Mill) la F. è prevalentemente uno
strumento di trasformazione della società umana, per il positivismo
evoluzionistico la F. ha più carattere contemplativo che
attivo. La difesa del mistero che Spencer pone tra i compiti della
F., cioè il riconoscimento dell'insolubilità dei cosiddetti
problemi ultimi, porta la F. sullo stesso piano contemplativo della
religione. La discussione intorno alla solubilità o insolubilità
dei cosiddetti "enigmi del mondo" cade interamente sul piano della
F. contemplativa. Il positivismo di Ardigò come il monismo
materialistico (Haeckel) e l'evoluzionismo spiritualistico (Wundt,
Morgan, ecc.) sono ugualmente contemplativi. In realtà il
clima romantico è presente nel positivismo come nell'idealismo
e indirizza quello come questo verso il concetto della F. come contemplazione
di una realtà necessaria. Contro tale concetto costituisce
una protesta il "nuovo materialismo" di cui si fece partigiano Marx,
polemizzando, dall'altro lato, contro il materialismo teoretico
di Feuerbach. "I filosofi, egli diceva, hanno fìnora soltanto
diversamente interpretato il mondo: si tratta ora di trasformarlo"
(Tesi su Feuerbach, 11). Ma per quanto Marx insista sull'impegno
di trasformazione che deve caratterizzare la F. come tale, il fondamento
stesso della F. come contemplazione rimane saldo nella sua dottrina.
Quel fondamento è infatti la necessità del reale;
e per Marx la trasformazione della società, cioè il
passaggio dalla società capitalistica a quella senza classi,
avverrà "con la fatalità che presiede ai fenomeni
della natura" (Capit.,I, 24, § 7). Su questa base, il
compito della F. appare quello di una profetica Cassandra anzichè
quello di promuovere e orientare la trasformazione stessa. Sotto
questo rispetto, si sottrae talvolta al clima romantico il neocriticismo.
Nella Ucronia Renouvier si propose di eliminare "l'illusione
della necessità preliminare per la quale il fatto compiuto
sarebbe il solo, fra tutti gli altri immaginabili, che avrebbe potuto
realmente accadere" (Uchronie, 2a ediz., 1901,
pag. 411). La "F. analitica della storia ha, secondo Renouvier,
il compito di determinare le concatenazioni generali dei fatti storici
per dirigere lo sviluppo della storia stessa (Intr. à
la phil. analytique de l'histoire, 1864, pag. 551-52). Dall'altro
lato la determinazione della F. come "visione del mondo", determinazione
che la F. subì, nella seconda metà del sec. XX, ad
opera di pensatori di provenienza neocriticistica o positivistica,
ha un chiaro significato contemplativo. Contro l'interpretazione
contemplativa della F. si è invece schierato polemicamente
il pragmatismo sin dalla sua origine, che si può vedere nel
saggio Come render chiare le nostre idee (1878) di C. S.
Peirce. In questo saggio Peirce affermava che l'intera funzione
del pensiero è di produrre abitudini d'azione (o credenze)
e che pertanto il significato di un concetto consiste esclusivamente
nelle possibilità d'azione che esso definisce. Ma queste
affermazioni di Peirce sono importanti anche da un altro punto di
vista. Peirce negava esplicitamente il presupposto stesso della
F. come contemplazione, cioè il carattere necessario
del reale. Peirce mostrava difatti come la regolarità e l'ordine
degli eventi nonchè i legami condizionali tra gli eventi
stessi non hanno niente a che fare con la necessità, che
implicherebbe la possibilità della previsione infallibile
(Chance, Love and Logic, Il, cap.2). La definizione data
da Dewey della F. come "critica dei valori" (Experience and Nature,
pag. 407) esprime, proprio sui presupposti stabiliti da Peirce,
la funzione direttiva della filosofia. Secondo Dewey, il còmpito
della F. è quello antico, iscritto nel significato etimologico
della parola: ricerca della saggezza; dove la saggezza differisce
dalla conoscenza per essere l'applicazione di ciò che è
conosciuto alla condotta intelligente delle faccende della vita
umana" (Problems of Man, 1946, pag. 7). Non diverso significato
ha la definizione data da Morris: "Una F. è un'organizzazione
sistematica che comprende le credenze fondamentali: credenze sulla
natura del mondo e dell'uomo, su ciò che è bene, sui
metodi da seguire nella conoscenza, sul modo in cui la vita dev'essere
vissuta" (Signs, Language and Behavior, 1946, VIII, §
6; traduzione ital., pag. 314). Per Morris, infatti, come per tutto
il pragmatismo, la credenza non è che una regola di comportamento:
e la F., come organizzazione delle credenze fondamentali, costituisce
perciò quello che Sartre ha chiamato "il progetto fondamentale
di vita". Nell'opera stessa di Sartre si può scorgere il
passaggio dalla concezione contemplativa della F., espressa ne L'étre
et le néant (1943) a quella attiva o illuministica espressa
nella Critique de la raison dialectique (1960). Nel primo
scritto, Sartre progettava una ricerca detta "psicanalisi esistenziale"
il cui scopo era quello "di mettere in luce, in una forma rigorosamente
oggettiva, la scelta soggettiva per la quale ciascuna persona si
fa persona cioè si fa annunziare a se stessa ciò che
essa è" (L'étre et le néant, pag. 662).
Il risultato di una ricerca di questo genere avrebbe dovuto essere,
secondo Sartre, la classificazione e il confronto dei vari tipi
di condotta possibili, quindi il chiarimento definitivo della realtà
umana come tale (Ibid., pag. 663). Il carattere contemplativo
di una disciplina siffatta è evidente. Ma nella sua seconda
opera Sartre intende la F. come "totalizzazione del sapere, metodo,
Idea regolatrice, arma offensiva e comunità di linguaggio"
nonché. come uno strumento che agisce, per trasformarle,
sulle società in decadenza e che può costituire la
cultura o addirittura la natura di un'intera classe (Critique
de la raison dialectique, pag. 17). Nel primo caso la F. non
dava nulla da fare agli uomini giacché l'uomo nulla poteva
fare: Sartre definiva l'uomo come "passione inutile" cioè
come passione impossibile di essere Dio (L'étre et le
néant, pag. 708). Nel secondo caso, la F. s'inserisce
come forza umana finita ma efficace, nel mondo, e tende a trasformarlo.
Sottratta al destino dei fallimento e a quello del successo, la
nozione di progetto si presta ad esprimere il carattere direttivo
e operativo che alla F. attribuiscono gli indirizzi neoilluministici
contemporanei. Un progetto difatti fa leva sulle conoscenze disponibili
e ne determina l'uso possibile al fine di garantire l'esistenza
e la consistenza degli uomini. Una F. che progetti in questo senso
(che è poi quello già chiarito da Platone) l'uso umano
del sapere è ovviamente la determinazione di tecniche di
vita che possono essere messe a prova, rettificate o rigettate.
III. La filosofia e i suoi procedimenti.-
Il terzo punto di vista dal quale si possono individuare costanti
di significato che consentano di riconoscere articolazioni fondamentali
nelle interpretazioni storicamente date del concetto di F., è
quello del procedimento o metodo che si ritiene proprio della filosofia.
Da questo punto di vista le F. si possono distinguere in a)
F. sintetiche o creative che procedono producendo
concettualmente il loro oggetto, senza riconoscere limiti o condizioni
a questo lavoro di costruzione; e b)
F. analitiche che riconoscono l'esistenza di dati e procedono a
descrivere o analizzare questi dati stessi. Il carattere proprio
delle F. analitiche è la limitazione cui si ritengono sottoposte
da parte del dato, comunque poi intendano la natura di esso. Il
carattere proprio delle F. sintetiche sta invece nel non riconoscere
questa limitazione e nel pretendere che il proprio metodo è
interamente costruttivo cioè capace di esaurire senza residui
l'intero oggetto della filosofia.
a) Il procedimento
sintetico non può far appello al controllo di situazioni,
fatti o elementi che siano indipendenti da sé; la sua caratteristica
è pertanto quella di valere come controllo a se stesso. Ogni
qualvolta una F. assume che la validità dei propri risultati
dipende esclusivamente dalla organizzazione interna della stessa
F. e può essere perciò riconosciuta e stabilita una
volta per tutte, senza bisogno che i risultati stessi siano messi
a prova e convalidati da tecniche o procedure indipendenti da essa,
il suo metodo può essere ritenuto sintetico. La sua procedura
infatti equivale in questo caso alla creazione o composizione ex
novo del suo oggetto, in una forma che non esige conferme né
teme smentite. La F. di Hegel costituisce l'incarnazione più
pura di questo tipo di filosofia. Quando Hegel dice: "La F. non
ha il vantaggio, del quale godono le altre scienze, di poter presupporre
i suoi oggetti come immediatamente dati dalla rappresentazione,
e come già ammesso, nel punto di partenza e nel procedere
successivo, il metodo del suo conoscere" (Enc., § 1),
egli afferma per l'appunto l'esigenza che la F. costruisca da sé,
interamente, il suo oggetto e il suo metodo. Ma producendo da sé
sia l'oggetto che metodo, essa non ha neppure da render conto ad
altre scienze o ad altri eventuali punti di vista dei suoi risultati
quali che siano. Hegel insiste sul carattere assolutamente indipendente
o incondizionato del suo metodo. "Il metodo (egli dice, per es.)
così come nella scienza il concetto, si svolge da se stesso
ed è soltanto una progressione immanente e una produzione
delle sue determinazioni" (Fil. del Dir. § 31). E ancora:
"La più alta dialettica del concetto è produrre e
intendere la determinazione, non semplicemente come limite o posizione,
ma traendo da essa il contenuto e il risultato positivi; in quanto
unicamente con ciò essa è sviluppo e progresso immanente.
Questa dialettica non è un fare esterno di un pensiero oggettivo
ma l'anima propria del contenuto, la quale fa germogliare i suoi
rami e i sui frutti organicamente" (Ibid., § 31). La differenza
tra questo metodo produttivo o, come meglio si direbbe, creativo
del suo oggetto e il metodo analitico che Hegel riconosce proprio
delle scienze dopo Cartesio, è espressa da Hegel stesso nel
modo seguente: "Il metodo iniziato da Cartesio rifiuta tutti i metodi
rivolti a conoscere ciò che per il suo contenuto è
infinito; si abbandona perciò allo sfrenato arbitrio delle
immaginazioni e asserzioni, ad una presunzione di moralità
e orgoglio di sentimento o ad uno smisurato opinare e raziocinare
il quale si dichiara, nel modo più energico contro la F.
e i filosofemi" (Enc., § 77).
Questa concezione attribuisce al procedimento filosofico
la produzione del suo oggetto e fa dell'oggetto l'infinito stesso,
cioè l'Assoluto o Dio, che risolve o annulla in sé
ogni fatto o cosa finita. Prima di trovare in Hegel la sua forma
tipica, tale concezione era stata esposta da Fichte come esigenza
che la F., quale dottrina della scienza, dia forma sistematica non
soltanto a se stessa ma anche a tutte le altre scienze possibili
e garantisca per tutte la validità di questa forma (Über
den Begriff der Wissenschaftslehre, 1794, § 1). Fichte
riteneva infatti che, insieme alla sua forma, la dottrina della
scienza dovesse produrre anche il contenuto; e che il contenuto
della dottrina della scienza racchiudesse in sè ogni possibile
contenuto e fosse perciò il contenuto assoluto" (Ibid.,
§ I). Risalendo ancora più in là, la concezione
del metodo sintetico si può vedere in Spinoza: secondo il
quale il procedimento filosofico (che egli chiama conoscenza intuitiva
o terzo genere di conoscenza o amore intellettuale di Dio) è
quello che ha per oggetto la necessità con cui tutte
le cose derivano dalla natura divina. L'amore intellettuale di Dio
è lo stesso amore con cui Dio ama se stesso (Et.,V,
36): ciò vuol dire che la conoscenza della necessità
con cui le cose derivano da Dio è la conoscenza stessa che
Dio ha di sè. Il procedimento matematico dell'Etica
acquista, da questo punto di vista, un rilievo fondamentale nella
filosofia di Spinoza: esso non è un artificio espositivo
ma l'adeguazione del metodo della F. al procedimento necessario
con cui le cose derivano da Dio. Considerato in questa prospettiva,
il metodo sintetico si rivela nella sua caratteristica più
appariscente: nella sua pretesa di valere come un colpo d'occhio
divino gettato sul mondo, come la conoscenza stessa che Dio
ha di sè e dei suoi effetti creati. E' facile allora vedere
come questa pretesa sia stata spesso avanzata dalla filosofia. "Questa
scienza soltanto, di- ceva Aristotele, è divina e lo è
in un duplice senso: perchè propria di Dio e perchè
concerne il divino. Essa sola ebbe in sorte entrambi questi privilegi:
Dio infatti appare come la causa e il principio di tutte le cose
e solo o principalmente una scienza siffatta può essere propria
di Dio" (Met., I, 2, 983 a 5). Aristotele chiamava pertanto
teologia la F. prima. Vero è che la F. prima è
tale per la sua universalità e che essa è universale
solo in quanto è scienza dell'essere in quanto essere (Ibid.,
VI, 1, 1026 a 30). Ma la stessa scienza dell'essere in quanto essere
è teologia perchè è la scienza della causa
o ragion d'essere e questa causa o ragion d'essere è Dio.
La F. aristotelica ha perciò dichiaratamente carattere sintetico
e può anzi essere considerata come il primo e classico esempio
dei procedimento sintetico. Ovviamente, essa non lo è soltanto
perchè ha Dio come oggetto della sua investigazione; ma anche
perchè si considera coincidente con la conoscenza che Dio
ha di sè. E da questo tratto può essere agevolmente
riconosciuta ogni F. sintetica come tale.
b) Il procedimento
analitico della F. si riconosce negativamente dalla mancanza
della pretesa di valere come conoscenza divina del mondo e positivamente
dal riconoscimento di un limite delle sue possibilità e di
un controllo dei suoi risultati. Il procedimento analitico non è,
di conseguenza, la costruzione ex novo del suo oggetto, ma
la risoluzione di esso negli elementi che lo lasciano intendere
cioè nelle sue condizioni. In questi termini, la determinazione
del procedimento filosofico è stata fatta da Kant dapprima
in uno scritto precritico del 1764 Sulla distinzione dei principi
della teologia e della morale poi nella seconda parte
principale della Critica della Ragion Pura. Nel primo di
questi scritti Kant contrapponeva il metodo analitico della F. al
metodo sintetico della matematica. "Ad ogni concetto generale, egli
diceva, si può pervenire per due strade: o attraverso un
collegamento arbitrario dei concetti oppure isolando quelle
conoscenze che sono state chiarite per suddivisione. La matematica
arriva sempre alle sue definizioni seguendo la prima strada... Le
definizioni filosofiche invece sono del tutto diverse. Qui il concetto
delle cose è già dato ma in modo confuso e non sufficientemente
determinato. Bisogna suddividerlo, confrontare nei vari casi le
note che si sono separate con il concetto dato, per poi determinare
e render compiuta questa idea astratta" (Untersuchung iiber die
Deutlichkeit der Grundsätze der natiirlichen Theologie und
der Moral, I, I, § 1). Nella Critica della Ragion Pura,
Kant distinse la conoscenza filosofica come conoscenza per concetti
dalla conoscenza matematica che consiste nella costruzione di
concetti. La matematica, dice Kant, può costruire concetti
perchè dispone di una intuizione pura che è quella
dello spazio-tempo. Ma la F. non dispone di una intuizione pura
ma soltanto di una intuizione sensibile: gli oggetti della
F. devono essere quindi dati e possono pertanto solo essere
analizzati, non costruiti, dal procedimento filosofico (Critica
R. Pura, Dottrina del metodo, cap. I, sez. I). Kant mette pertanto
in guardia i filosofi contro la pretesa di voler organizzare la
loro scienza secondo il modello matematico. In F., non ci sono propriamente
definizioni (che siano costruzioni di concetti) nè assiomi,
cioè verità evidenti, nè dimostrazioni, cioè
prove apodittiche. Dice Kant a proposito di queste ultime: " L'esperienza
ci insegna ciò che c'è, ma non che non può
essere altrimenti. Princìpi empirici di prova non possono
darci nessuna prova apodittica. Da concetti a priori (nella
conoscenza discorsiva) non può nascere mai una certezza intuitiva
cioè un'evidenza, per quanto il giudizio possa es- sere apoditticamente
certo" (Ibid., Dottrina del metodo, cap. I, sez. I). Da questo
punto di vista, il procedimento della F. è ben lontano dal
poter dare all'uomo una conoscenza paragonabile a quella posseduta
da Dio. "La determinazione dei limiti della nostra ragione non può
farsi se non su principi a priori; ma la limitatezza della ragione,
che viene ad essere la conoscenza, sia pure indeterminata, di un'ignoranza
mai completamente eliminabile, può anche essere conosciuta
a posteriori vale a dire da questo che, in ogni sapere, ci resta
sempre ancora da sapere" (Ibid., Della impossibilità
di un appagamento scettico). La F. non è mai una scienza
perfetta, che si possa insegnare od apprendere. "Si può imparare
soltanto a filosofare cioè ad esercitare il talento della
ragione nell'applicazione dei suoi principi universali a determinate
ricerche, ma sempre con la riserva del diritto della ragione stessa
a indagare quei principi alle loro sorgenti e a confermarli o rifiutarli"
(Ibid., Dottrina del metodo, cap. III)
Queste notazioni di Kant costituiscono un concetto
relativamente compiuto o maturo del proce- dimento analitico in
filosofia. Il precedente immediato di esso è Locke. "Non
è affar nostro, in questo mondo, aveva detto Locke, conoscere
tutte le cose, bensì quelle che riguardano la condotta della
nostra vita. Se dunque possiamo trovare le regole mediante le quali,
una creatura ragionevole, qual è l'uomo, considerato nello
stato in cui si trova in questo mondo, può e deve condurre
le sue opinioni e le azioni che ne dipendono; se, dico, possiamo
giungere a tanto, non dobbiamo farci un cruccio se altre cose sfuggono
alla nostra conoscenza" (Saggio, Intr., § 6). Il concetto
della F. come procedimento analitico cioè diretto a determinare
le condizioni e perciò i limiti delle attività umane,
ispirò l'intero Illuminismo settecentesco. Ma sotto questo
rispetto e con la diversità dovuta alla differenza dei mezzi
culturali disponibili, l'Illuminismo settecentesco riprendeva l'ideale
dell'Illuminismo antico, quello dei Sofisti e di Socrate, che intesero
!a F. come diretta alla formazione dell'uomo nella comunità.
Di questo Illuminismo, secondo il quale la F. è uno strumento
per l'uomo, si può ritenere una manifestazione lo stesso
concetto platonico della fìlosofia. Platone infatti negava
che la F. potesse essere propria della divinità. Essa, come
l'amore, è mancanza perchè è desiderio di saggezza
da parte di chi la saggezza non possiede per propria natura. L'uomo
è filosofo perchè "sta in mezzo tra il sapiente e
l'ignorante" mentre la divinità che possiede già la
sapienza, non ha bisogno di filosofare (Conv., 204 a-b).
Dall'altro lato, la dialettica, che è il metodo della F.,
è concepita da Platone come analisi, cioè come un
procedimento che consente di distinguere il discorso vero dal discorso
falso, mostrando le cose che possono combinarsi tra loro e quelle
che non possono combinarsi (Sof., 252 d-e). Per mostrare
quali sono le cose che possono e quelle che non possono combinarsi,
la dialettica procede componendo varie determinazioni in
un unico concetto e poi dividendo questo concetto stesso
nelle sue articolazioni, come fa un abile scalco (Fedro,
265 e). Essa quindi suppone a ogni passo la scelta opportuna delle
determinazioni da comporre in un concetto solo e dei punti in cui
far cadere la divisione del concetto stesso: scelta che suppone,
come ogni altra scelta, un'utilizzazione di dati: onde il
metodo platonico è stato giustamente considerato come un
metodo empirico (Taylor, Plato, 4a ediz., 1937,
pag. 377).
Che la F. sia un'attività umana cioè
limitata nella sua portata e nella sua validità; che essa
consista nell'effettuare scelte e non già nel costruire
in toto il suo oggetto, sono le caratteristiche fondamentali
della concezione analitica della filosofia. Da questi due caratteri
deriva il terzo, che è forse il più ovvio e appariscente:
quello per cui questo metodo è, tra l'altro e in primo luogo,
riconoscimento ed utilizzazione di dati cioè di fatti,
elementi o condizioni che non sono prodotti dal metodo stesso.
La scelta dei dati e la loro elaborazione in vista di una soluzione
possibile costituisce il problema (v.). Le F. analitiche
sono in genere contrassegnate dal fatto che in esse la nozione di
problema è fondamentale, mentre non esiste o è considerata
secondaria e trascurabile nelle F. sintetiche (come accade in quelle
di Aristotele e Hegel). Un'ulteriore determinazione di questa concezione
(una determinazione che essa acquista solo nel mondo contemporaneo)
è quella concernente il campo dal quale la F. può
o deve trarre i suoi dati e col quale l'interpretazione di questi
dati può o deve essere messa a confronto. E' solo un'idea
recente che i risultati della F., come quelli di ogni altra indagine,
non sono definitivi ma hanno bisogno di essere messi a prova e saggiati.
Dewey ha chiamato a questo proposito la F. critica delle critiche.
"Può sembrare ad alcuni un tradimento, egli ha detto, concepire
la F. come il metodo critico per sviluppare i metodi della critica.
Ma anche questo concetto della F. attende di essere messo alla prova,
e la prova che lo confermerà o lo condannerà consiste
nella riuscita eventuale. L'importanza della conoscenza che abbiamo
acquistato e dell'esperienza che è stata ravvivata dal pensiero
consiste nell'evocare e nel giustificare la prova" (Experienee
and Nature, pag. 437).
Tuttavia questa esigenza diventa operante solo
quando si determini il campo dal quale la F. tragga i suoi dati
e nel quale trovi le sue possibilità di conferma. La determinazione
di questo campo costituisce la caratteristica propria della F. analitica
dei tempi nostri. Ora i campi a cui si può fare riferimento
sono soltanto due: 1° l'esistenza singola; 2° l'esistenza
associata.
1° Le F. che fanno appello all'esistenza singola
per la ricerca dei dati e per la eventuale messa a prova delle soluzioni
considerano abitualmente l'esistenza singola come coscienza
e vedono nella coscienza il dominio proprio della filosofia. Nel
mondo contemporaneo, la più conosciuta e tipica F. di questa
specie è quella di Bergson, che esplicitamente si organizza
come ricerca dei "dati immediati della coscienza" e che utilizza
questi dati per soluzioni che possono a loro volta essere messe
a prova soltanto nell'ambito della coscienza. A questo tipo di F.
si riconnette anche la fenomenologia concepita da Husserl come "un
ritorno radicale all'ego cogito puro, per far rivivere i
valori eterni che ne derivano (Cart. Med., § 2). Il difetto
metodologico di questo tipo di F. consiste nel fatto che in esse
il dato, che deve servire come limitazione o controllo del procedimento
analitico, non è veramente indipendente da questo procedimento,
perché può essere scoperto o assunto solo sulla base
dei presupposti che lo ispirano.
2° Le F. che fanno appello all'esistenza associata
hanno il loro capostipite nella F. di Platone, che per l'appunto
intendeva mettere a prova i risultati della F. nella vita associata.
Allo stesso genere appartiene la F. di Kant, secondo la quale i
risultati della F. devono essere messi a prova nel dominio morale
e politico cioè nel campo dei rapporti umani in generale
e costituire uno strumento di progresso in tale campo [cfr. lo scritto
Se il genere umano sia in costante progresso verso il meglio,
del 1798, nonché quello Sull'illuminismo, 1784,
e quelli precedentemente citati in questo articolo, II, b)]. L'esperienza
inter-umana è anche quella cui fa riferimento Dewey per la
messa a prova dei risultati della F. cioè delle proposte
che essa formula per la condotta intelligente della vita (Experienee
and Nature, cap. X). Dall'altro lato, l'esistenzialismo di Heidegger,
per quanto non progetti di mettere a prova i risultati delle sue
analisi, assume i dati di questa analisi dall'esistenza comune quotidiana,
da ciò che accade fra gli uomini "innanzi tutto e per lo
più" (Sein und Zeit, § 9). Infine a questo stesso
orizzonte si può ricondurre la F. intesa come analisi del
linguaggio in quanto scorge nel linguaggio il fatto inter-soggettivo
fondamentale e quindi nel chiarimento e nella rettificazione di
esso lo strumento più adatto per l'eliminazione degli equivoci
e la rettificazione dei rapporti inter-soggettivi. Questo almeno
sembrerebbe il significato più importante di una siffatta
filosofia. Ma non è il caso di questo significato, se essa
viene intesa semplicemente (come alcuni l'intendono) quale una "terapia"
diretta a liberare dai dubbi, ritenuti fittizi, prodotti dalla filosofia.
In questo caso, poiché nessuno, tranne l'interessato, può
giudicare se si senta o meno sufficientemente "guarito" la messa
a prova della F. avrebbe per suo campo proprio la vita privata dell'individuo.
Da: Nicola Abbagnano, Dizionario di filosofia, UTET, Torino, 1961.