filosofo del '900
A cura di G. De Crescenzo e P. Laveglia, introduzione di N. Bobbio, Taylor Editore,Torino, 1967, pp. 258.
Signor Sindaco, Autorità, cari concittadini,
perdonatemi in primo luogo se in questo momento io mi sento, oltre
che commosso, anche imbarazzato: un filosofo è naturalmente abituato,
per le necessità del suo mestiere, più al clima polemico delle discussioni
che a quello della simpatia e dell'accoglienza cordiale. Ma di questa
simpatia e di questa accoglienza vi sono profondamente grato e sono
particolarmente grato al nostro Sindaco che ha voluto organizzare
questa cerimonia e che nell'inaugurarla ha voluto ricordare con
parole così affettuose anche la mia famiglia e specialmente la figura
di mio padre. Da questa città che egli guida con tanta saggezza
e energia sulle vie di una civile prosperità, io sono restato lontano
molti anni. Ma da essa, dalla mia famiglia, dalle scuole, dai primi
amici ho ricevuto e conservato le doti che mi hanno consentito di
portare avanti la mia vita e il mio lavoro: l'amore disinteressato
della cultura, la tenacia ("capatosta") e la serenità dello spirito,
senza la quale nessun lavoro efficace può essere iniziato e condotto
a termine. E poiché sono in tema di riconoscimento di debiti, permettetemi
anche, in questo momento, in cui mi sento riscaldato dalla stima
e dall'affetto dei miei Concittadini, di rivolgere un saluto alla
città di Torino, di cui Norberto Bobbio è uno dei figli più illustri,
che da molti anni mi ha accolto e in cui ho trovato discepoli e
amici carissimi nonché aiuti di ogni genere e in ogni classe sociale
nei difficili momenti che ho attraversato.
Come risposta all'affettuosa manifestazione di stima, che avete
voluto darmi, mi propongo di illustrarvi nel modo più semplice,
come si conviene ad una conversazione tra amici, il compito che
ritengo proprio della filosofia, il compito al quale ho dedicato
la mia attività negli anni passati e intendo dedicare il tempo della
vita che ancora mi resta.
Questo è oggi un tema di attualità perché le profonde, radicali
trasformazioni tecnologiche, sociali e culturali, che sono in corso
nella nostra società e investono l'intero genere umano, mettono
in crisi le forme tradizionali della filosofia. La filosofia è certo
qualcosa di "eterno" perché risponde al bisogno dell'uomo di conoscere
se stesso e il mondo in cui vive e di progettare la sua vita sulla
base di questa conoscenza. Ma i modi in cui essa si realizza non
sono eterni perché condizionati dalle forme storiche che la civiltà
assume nel tempo. Pertanto il primo compito del filosofo è quello
di rendersi conto delle trasformazioni storiche in atto per prendere
coscienza dei compiti che tali trasformazioni pongono alla filosofia
e degli strumenti che ha a disposizione per affrontarli.
La prima e più evidente trasformazione che il mondo moderno va subendo
sotto i nostri occhi consiste nella crescente solidarietà che si
va realizzando fra tutti i popoli della terra. Si tratta, certamente,
di una solidarietà di fatto, che non evita, anzi rende più probabili,
urti, lotte, conflitti e pericoli ancora maggiori. Ma gli stessi
mezzi tecnici che consentono agli uomini di andare passeggiando
negli spazi interplanetari, rendono illusoria ogni loro pretesa
di chiudersi nel guscio del loro territorio o della loro cultura.
Non c'è oggi popolo o nazione, piccola o grande, che possa isolarsi
dal resto del mondo. Ciò che accade nel più piccolo e insignificante
stato africano, può avere ripercussioni decisive sulla vita, la
prosperità e la pace di tutte le altre nazioni del globo. La civiltà
e la ricchezza di certi popoli, che hanno raggiunta una condizione
privilegiata, possono essere minacciate dalla fame e dalla violenza
di popoli lontani e apparentemente estranei. In questa condizione,
la filosofia si trova coinvolta nella stretta di esigenze contrastanti;
da un lato essa, come opera di un fìlosofo o di un gruppo di filosofi,
appartiene sempre a una determinata forma di cultura e utilizza
il sapere e gli strumenti concettuali che questa cultura le offre.
Nel nostro mondo occidentale, ad esempio, la scienza, la tecnica,
le discipline filologiche e storiche, la tradizione religiosa e
la stessa tradizione filosofica offrono alla filosofia i mezzi di
cui dispone e, in parte almeno, le prescrivono gli orientamenti
che può assumere. Ma dall'altro lato una filosofia, oggi, deve poter
essere intesa, valutata ed eventualmente accettata da tutti gli
uomini in quanto tali. A quale condizione deve rispondere per obbedire
a questo compito?
Nonostante che le opere dei filosofi greci e specialmente di Platone
e di Aristotele siano state una fonte inesauribile di ispirazioni
filosofiche e probabilmente continueranno ad esserlo, non bisogna
dimenticare che essi muovevano dal presupposto che la filosofia,
e in generale la ricerca scientifica è propria degli uomini liberi,
che sono in piccolo numero, e che perciò essa non riguarda la maggior
parte del genere umano che è formata di schiavi, cioè di individui
incapaci di attività intellettuali superiori. La distinzione tra
liberi e schiavi, i primi destinati alla speculazione e al dominio
politico, i secondi, incapaci dell'uno e dell'altro e destinati
solamente al lavoro manuale è, secondo i Greci, stabilita e voluta
dalla natura stessa ed è ineliminabile come quella che c'è tra l'uomo
e la donna o tra il giovane e il vecchio. Raramente, nella filosofia
occidentale, questa credenza dei Greci è stata assunta e difesa
esplicitamente. Ma spesso, implicitamente, i filosofi si sono presentati
come profeti di una minoranza privilegiata e hanno parlato soltanto
per essa e di essa. Ciò è accaduto soprattutto quando i filosofi
hanno insistito sul carattere puramente contemplativo della filosofia.
Secondo una tradizione riportata nelle Tuscolane di Cicerone,
Pitagora paragonava la vita umana alle grandi feste che si tenevano
a Olimpia o in altre città della Grecia dove alcuni andavano per
affari, altri per partecipare alle gare, altri per divertimento
e infine alcuni soltanto per vedere ciò che accadeva. Solo
questi ultimi, secondo Pitagora, erano i filosofi. Che la ricerca
filosofica escluda e renda insignificanti tutte le altre attività
cui l'uomo dedica la sua vita quotidiana, e perciò sia proprio soltanto
di quegli esseri privilegiati che hanno la capacità e i mezzi per
dedicarsi alla pura contemplazione della vita, senza partecipare
alla vita stessa, è stato il presupposto di molte filosofie. Anche
oggi la fenomenologia di Husserl, ad esempio, ritiene che la filosofia
si possa fare soltanto dal punto di vista di uno spettatore disinteressato
che vede scorrere davanti a sé il fiume della vita ma non s'immerge
mai in esso e non ne viene mai travolto. Ma, se è così, filosofare
significa estraniarsi dalla vita di ogni giorno e dall'umanità e
abbandonare al loro destino tutti quelli che non hanno l'agio o
la capacità di trasformarsi in puri occhi del mondo. Contrariamente
a quanto comunemente si crede, la smentita di questo punto di vista
è stata data da Platone: il quale voleva bensì che i filosofi non
si lasciassero ingannare dalle apparenze sensibili delle cose e
ne cercassero la vera sostanza; ma esigeva pure che essi ponessero
i risultati della loro ricerca al servizio degli uomini e contribuissero
con questo a rendere il mondo più giusto e più felice. Questo fondamentale
insegnamento platonico (che può essere agevolmente scisso dall'utopia,
cui Platone stesso indulse, di una repubblica perfetta governata
da filosofi), dev'essere oggi ritenuto di piena attualità. Quali
che siano gli indirizzi o le vie che la ricerca filosofica può prendere,
è indispensabile che essa non sia considerata il patrimonio d'individui
privilegiati, separati dalla comune umanità da una radicale diversità
di interessi, ma appartenga, potenzialmente almeno, a tutti gli
uomini in quanto tali, e a tutti possa offrire qualche aiuto per
la soluzione dei problemi fondamentali della vita.
La filosofia mira oggi pertanto ad una duplice universalità. Da
un lato all'universalità che consiste nello svincolarsi dalle tradizioni
culturali specifiche e nella possibilità di rivolgersi efficacemente
a qualsiasi uomo, a qualsiasi tipo di cultura appartenga: e dall'altro
lato, all'universalità che deriva dall'evitare la contrapposizione
tra filosofi e non filosofi, sicché essa possa rivolgersi a qualsiasi
uomo che voglia affrontare con consapevolezza i problemi di fondo
che si celano anche nella più stretta routine dell'esistenza quotidiana.
Ma che questa duplice universalità s'imponga oggi come esigenza
fondamentale di ogni ricerca filosofica, non significa che sia facile
realizzarla. Non basta, per realizzarla, che il filosofo pretenda
di parlare in nome della Ragione o dello Spirito (con le iniziali
maiuscole) o dell'Assoluto o dell'Essere o di altro che sia, e che
assuma atteggiamenti profetici, presentandosi come l'unica voce
di una Verità che gli altri uomini debbono solamente accettare e
seguire. Anzi è proprio questo atteggiamento che rende impossibile
la funzione universalmente umana della filosofia. Se un filosofo
mi dice: "Questa è l'intera assoluta verità: accettala e taci",
io sono posto di fronte ad una alternativa che, comunque risolta,
mi esclude dall'attività filosofica vera e propria. Giacché, se
accetto quella pretesa verità, mi rendo passivo di fronte ad essa
e rinunzio a servirmi dei miei poteri critici, della mia iniziativa
di ricerca e sono con ciò fuori della filosofia; e se la rigetto
totalmente, come totalmente mi viene presentata, essa non ha per
me alcun insegnamento, né positivo né negativo. La filosofia non
può pronunziare, come la moglie bisbetica di Giovenale, un sic
volo sic jubeo. La filosofia ha la sua radice nel dubbio e nell'iniziativa
di ricerca della persona umana, nella meraviglia che coglie in certi
istanti ogni individuo di fronte a certi aspetti anche banali della
vita, meraviglia che gli fa chiedere: perché? Perché è cosi e non
altrimenti? Dubbio, spirito indagatore, meraviglia, non sono propri
soltanto di individui privilegiati; sono possibilità aperte a ciascun
uomo in quanto tale. E' ovvio che ciascun uomo può trovare, nella
parola di un filosofo, una risposta ai suoi dubbi, una guida per
la sua riflessione e uno stimolo per la sua meraviglia. Ma l'importante
è che non accetti nulla passivamente, non si faccia strumento dell'altrui
pensiero e dell'altrui verità, o per dirla con il linguaggio corrente,
non alieni da sé il compito specifico dell'uomo di comprendere
se stesso e il mondo in cui vive, delegandolo ad altri. Nessun uomo,
io credo, dovrebbe accettare questa delega e nessun uomo dovrebbe
darla. Non si può pensare o ragionare per delega. Nella cerchia
ristretta dei filosofi di professione si dibattono, certo, problemi
che, a un certo stadio della loro elaborazione tecnica, sono accessibili
solo ai competenti. Ma se si tratta di problemi autentici e autenticamente
filosofici, la portata di questi problemi, il significato che hanno
per l'uomo, deve poter essere inteso e fatto proprio da ciascun
uomo e ciascun uomo deve avere il diritto di accedere ad essi e
assumere posizione. Platone diceva che la filosofia non è solo possesso
di un certo sapere ma consiste soprattutto nel conoscere l'uso che
bisogna fare del sapere che si possiede. Vediamo che cosa questo
significa in un esempio particolare. Pochi, certamente, di fronte
al complesso dell'umanità, sono gli scienziati che conoscono i procedimenti
per produrre l'energia atomica. E' abbastanza ovvio che questa,
come ogni altra competenza specifica, dev'essere ristretta a un
gruppo limitato di persone. Ma quando si parla dell'uso che si può
e deve fare delle conoscenze di cui disponiamo in quel campo e della
stessa energia atomica: se per esempio essa deve essere diretta
a dominare l'umanità o a liberarla, alla pace o alla guerra, alla
distruzione del genere umano o all'arricchimento dei suoi poteri
e delle sue capacità, tutti gli uomini hanno e devono avere la possibilità
di pronunziarsi. Questo problema non concerne più soltanto la cerchia
ristretta degli scienziati competenti perché coinvolge il destino
di tutto il genere umano. E l'atteggiamento che di fronte a quel
problema può assumere un qualsiasi uomo della strada non ha minor
valore di quello di un Einstein o di un Fermi, perché quel problema
ha la stessa portata, lo stesso significato per tutti. I
problemi fondamentali della filosofia sono di questa natura: coinvolgono
tutti gli uomini in quanto tali, concernono il significato, il destino
della vita umana nel mondo e ogni uomo dovrebbe poterli affrontare
con chiarezza d'idee e senso di responsabilità.
Che cosa possono fare i filosofi per dare alla loro ricerca questa
impronta di universalità umana, questo carattere di dignità e di
libertà che la renda aperta e accessibile a tutti gli uomini di
buona volontà? In primo luogo, devono tener conto del pluralismo
degli orientamenti che la ricerca filosofica può assumere e delle
diversità, talora irriducibili, dei risultati cui essa può condurre.
Questo è il preliminare e indispensabile compito storico. La storia
della filosofia non è lo sviluppo progressivo di un'unica filosofia
che da un capo all'altro di essa si sia venuta progressivamente
affermando e sviluppando; non è neppure un caos di opinioni diverse
e cervellotiche che si urtano e si accavallano senza costrutto;
e non è neppure alcunché di mezzo tra l'una e l'altra cosa. Essa
è fatta di scuole, di indirizzi, di personalità che fanno un certo
cammino in comune e poi si dividono; di polemiche e di contrasti
che hanno almeno in comune un problema; di problemi diversi che
si intersecano e si condizionano variamente tra loro. Come ogni
altra attività umana, è un campo di convergenze e divergenze, di
accordi e di dissensi, di collaborazioni e di lotte. L'indagine
storica della filosofia serve a chiarire questi aspetti e a dare
il quadro della ricchezza e varietà delle possibilità di filosofare:
ricchezza e varietà in cui si riflettono la ricchezza e la varietà
dei progetti che l'uomo può fare della vita individuale e associata,
cioè dei modi in cui può atteggiarsi di fronte a se stesso, di fronte
mondo e di fronte a Dio.
In secondo luogo, la filosofia deve autenticare i suoi problemi
nel senso che deve accertarsi che i problemi che affronta non sono
fittizi, non prendono origine da malintesi concettuali o verbali,
da presupposti nascosti ma fallaci, da forme di mentalità o di tradizione
che hanno perso il loro valore. E il solo modo di autenticare i
problemi filosofici è quello di formularli in relazione ai risultati
raggiunti negli altri campi del sapere umano cioè dalle altre scienze
che costituiscono l'universo culturale di oggi. Certo, la filosofia
non può avere solo il compito, che il vecchio e il nuovo positivismo
le attribuiscono, di elaborare i risultati delle scienze e di vivere,
parassitariamente, in dipendenza di essi. Ma che si può dire di
una filosofia che, per esempio, considerando il problema della natura
e dei limiti della scienza, si riferisca al concetto che della scienza
aveva Aristotele e trascuri le trasformazioni radicali che la scienza
stessa ha subito da Galileo a oggi? Dovremo dire che essa affronta
un problema mal posto perché la scienza di cui essa parla non esiste
più. Autenticare i problemi significa tener conto dei dati fondamentali
e aggiornati di cui il nostro sapere dispone nel campo cui il problema
si riferisce. Significa altresì tener conto di questi dati per quello
che valgono, cioè non scambiare i più certi con i meno certi, le
ipotesi con i fatti e i fatti con le fantasie avveniristiche.
In terzo luogo, la filosofia deve elaborare i suoi problemi nella
forma concettuale più rigorosa ed evitare slittamenti nell'approssimativo,
nel fantastico, nell'oratorio. La filosofia deve trovare la sua
tecnica, per quanto non possa né debba trattarsi di una tecnica
per iniziati. Essa non ha bisogno di allettamenti retorici, di forme
smaglianti di discorso, di immaginazioni poetiche. L'interesse che
essa è diretta a suscitare è di natura diversa e può essere affidato
soltanto a concetti chiari, rigorosi e senza sbavature.
Lo scopo della filosofia non è quello di persuadere cioè
di ricorrere alla mozione degli affetti per suscitare credenze inconsulte,
entusiasmi, fanatismo; ma quello di fare appello ai poteri razionali
dell'uomo e di suscitare in lui riflessioni e convinzioni ragionevoli.
La via della persuasione non dà in filosofia alcun affidamento e
non possiede alcuna universalità. Essa deve infatti far leva su
stati d'animo già esistenti, su emozioni che già sono radicate in
quella cerchia di persone cui si rivolge. Ma gli stati d'animo e
le emozioni sono diversi da un gruppo umano all'altro e non possono
essere resi universali o comuni. Le tecniche razionali sono invece,
per loro natura, oggettive: possono quindi, esse sole, dare al lavoro
filosofico l'indispensabile universalità.
L'impostazione storiografica, l'autenticazione dei problemi e la
loro elaborazione mediante rigorose tecniche razionali, sono gli
aspetti inscindibili delle risposte che la filosofia può dare alle
domande che la società moderna le rivolge. A dispetto di ogni previsione,
queste domande divengono ogni giorno più numerose e pressanti. La
divisione del lavoro scientifico, la prevalenza della tecnica, l'industrialismo,
le comunicazioni di massa non tendono, come pareva, a indebolire
il bisogno della filosofia e l'interesse per essa, ma piuttosto
a forzarli e ad estenderli. In certe fasi o a certi livelli della
loro attività scienziati, tecnici, uomini d'affari, uomini politici,
sono portati a rivolger oggi alla filosofia domande cui non sempre
essa è in grado di rispondere. Una grande responsabilità incombe
oggi su questa disciplina che ha accompagnato e sorretto l'uomo
sin dai primordi della civiltà. Una responsabilità che non può cadere
sulle spalle di un solo filosofo, ma richiede piuttosto il lavoro
e l'impegno di molte generazioni di filosofi: un lavoro non collettivo
e spersonalizzato ma personalizzato, originale e tuttavia alieno
da antagonismi polemici e diretto più realizzare una collaborazione
che a dar luogo a battaglie ideologiche. A questo lavoro, ricco
di responsabilità e di rischi ma che ha perso l'alone romantico
della profezia, ho cercato di dare contributo nel corso della mia
vita e cercherò di darlo per quanto mi è ancora concesso. E se questo
contributo non sarà stato inutile, riterrò che la mia vita è stata
bene spesa al servizio della filosofia.
NICOLA ABBAGNANO
Questo volume deriva da una iniziativa dell'Amministrazione del Comune di Salerno, che il 14 Settembre 1965 deliberò di onorare la figura e l'opera del filosofo salernitano in occasione della ricorrenza di un quarantennio di attività didattica e scientifica del medesimo. Il 4 Dicembre 1965, nel Salone dei Marmi del Palazzo di Città di Salerno, ebbe luogo la manifestazione durante la quale venne offerta ad Abbagnano una medaglia d'oro del Comune. Dopo il saluto del Sindaco Alfonso Menna, Norberto Bobbio aprì la manifestazione con un "Discorso su Nicola Abbagnano", al quale seguì la risposta di quest'ultimo. Questi tre interventi appaiono nel volume, che venne stampato in 2000 copie. 150 di queste, numerate e riportanti in copertina la scritta "Omaggio del Comune di Salerno a Nicola Abbagnano", vennero firmate dall'autore.
In: N. Abbagnano, Scritti scelti, a cura di Giovanni De Crescenzo e Pietro Laveglia, introduzione di Norberto Bobbio, Taylor Editore, Torino, 1967, pp. 45-56.