Nicola Abbagnano

L'uomo progetto 2000

Dialogo con G. Grieco "Collana Ragione e tempo", Dino Editore, Roma,1980, pp. 272
Traduzioni: The Human Project - The Year 2000, a cura di Nino Langiulli, traduzione di Bruno Martini e Nino Langiulli, vol. 119 "Value Inquiry Book Series", Rodopi, Amsterdam-New York, 2002, pp. 162

Introduzione

1. Che cos'è questo libro
Questo libro non è un annuncio profetico. Fra le cose, che negli ultimi decenni del nostro secolo sono precipitate nel nulla senza alcuna manifesta possibilità di rinascita, c'è l'utopia precorritrice, il sogno di un mondo futuro perfetto nel quale tutti i problemi dell'uomo siano definitivamente risolti. Nei suoi ultimi sprazzi, l'utopia ha assunto un carattere esclusivamente negativo: distruggiamo il mondo attuale che è pessimo, quello che verrà dopo non sappiamo quale sia. E all'utopia si sono sostituite le prospettive pessimistiche: gli annunci della fine imminente della civiltà con il ritorno alla barbarie o addirittura della distruzione graduale ed inevitabile del genere umano, ormai ritenuto privo della capacità di sopravvivere.
Profezie del genere suppongono nell'uomo una capacità di previsione che va molto al di là dei suoi poteri effettivi e si presuppongono perciò sempre ispirate da una chiaroveggenza superiore o dalla stessa forza nascosta che muove il mondo. Ogni pretesa del genere è estranea agli intenti di questo libro, che è impostato sul riconoscimento preliminare dell'uomo come creatura finita ma non rifinita: cioè limitata ma non determinata ad essere quella che è dalla sua natura o dal suo destino. L'uomo così inteso, e che che è ciascuno di noi, nella sua singolarità e nei suoi ineliminabili rapporti con gli altri, non può essere allucinato da sogni o fantasmi, ma deve cercare di conoscere, con la maggior chiarezza possibile, la sua condizione nel mondo, non dimenticando le lezioni che il passato gli ha fatto apprendere con dolori e disastri di tutti i generi, scorgendo chiaramente le possibilità che il presente gli offre e muovendo verso l'avvenire, sulla base di esse, con fiducia e fermezza. La cosa più importante fra tutte è che egli non dimentichi mai se stesso, cioè di essere un uomo fra gli uomini.
che può salvare la sua esistenza fisica e la sopravvivenza della sua specie solo salvando la sua dignità, il suo valore proprio, cioè quella libertà che gli consente, anche nelle circostanze più avverse, di scegliere la via di uscita migliore.
La prima parte di questo libro è un dialogo, un dialogo autentico e non letterariamente fittizio, tra due persone concordi nel loro fondamentale interesse umano ma non impegnate a sostenere tesi simili od opposte ma solo a raggiungere la massima chiarezza possibile sulle possibilità reali, che si offrono all'uomo, di progettarsi in un prossimo futuro nella sua propria integrità. La seconda parte del libro è una messa a prova dei risultati raggiunti nella prima, mediante uno sguardo gettato sulla cultura contemporanea per scorgere i modi in cui essa prospetta la difesa della libera dignità umana e la salvezza dell'uomo dai rischi che incombono su di lui nella società contemporanea. E difatti, se l'esigenza di difendere con la libertà l'autentica dignità umana è viva e presente nella cultura contemporanea, il modo in cui questa libertà viene intesa la capovolge spesso nel suo contrario o la stravolge a significati inconcludenti. E se è altrettanto viva l'esigenza di trovare le vie di salvezza dai rischi cui la società umana va in- contro, tali vie sono additate nei sentieri più diversi che spesso non portano a nulla. La religione stessa non è rimasta indenne, negli ultimi decenni, dalla tentazione di mettere da parte o di obliterare il suo aspetto sacrale, nel tentativo di adeguarsi alla cultura moderna e di acquisire una forza politica che le sembrava negata. Solo negli ultimi tempi si è profilato una salutare reazione a quest'ultima tendenza, reazione che può essere decisiva dacché la massima autorità del cristianesimo si è pronunciata in favore di un umanesimo autenticamente cristiano, che difende ugualmente l'integrità dell'uomo e la sacralità del suo destino.

2. Individualità e socialità
La prima cosa di cui bisogna rendersi conto, quando si parla dell'uomo, è che egli non è mai una creatura isolata o un mondo a sè. Anche nella sua più intima interiorità sono presenti ed agiscono fattori esterni, apportati dall'eredità biologica e dal patrimonio ambientale. Questi fattori, certo, non sono necessitanti, cioè non lo costringono ad essere o ad agire in un modo o nell'altro; ma sono sempre condizioni e limiti del suo essere e del suo agire sicché solo affrontandoli, e qualche volta lottando contro di essi, si realizza nella sua forma concreta la libertà umana. Ma la vita dell'uomo non si esaurisce nella sua interiorità, nella coscienza in cui egli può ritrovarsi ad ogni istante nel rapporto diretto con se stesso e che lo eleva giudice di se stesso. Il rapporto con l'esteriorità delle cose, e specialmente quello con gli altri esseri umani, condiziona ogni attività o manifestazione dell'uomo perché è indispensabile alla soddisfazione dei suoi bisogni, al lavoro o al gioco, al divertimento come all'arte, alla scienza, alla religione e alla filosofia. Nessuna di queste attività chiude l'uomo in se stesso come non lo chiudono le emozioni, gli affetti e le passioni di cui è intessuta la sua vita di. ogni giorno o che scandiscano le tappe della sua carriera mondana. Le istituzioni di cui egli entra a far parte - la famiglia, la società, lo stato, le organizzazioni di lavoro, i partiti politici, le comunità religiose e i gruppi tenuti insieme da una qualsiasi forma di solidarietà, buona o cattiva - costituiscono gli aspetti molteplici della sua esistenza, che cercano di trovare equilibrio, o almeno compatibilità, nella struttura della sua personalità.
L'individualità dell'uomo non è perciò il suo isolamento. La difesa di questa individualità non può essere la condanna in blocco del mondo di cui essa fa parte. I diritti di cui essa deve godere non sono senza limiti perché nascono appunto dal rapporto con altre individualità che hanno gli stessi diritti. Il rapporto dell'uomo con gli altri uomini, proprio perché essenziale alla vita e alla dignità di ciascuno di essi, non può essere negato ed infranto senza che l'individuo stesso smarrisca dignità e libertà e si disponga alla distruzione. Non per nulla, in tutti i sistemi morali e nelle grandi religioni vige il principio della reciprocità espresso dalla formula famosa: " Non fare agli altri quello che non vorresti fosse fatto a te", formula a cui il cristianesimo ha dato un risvolto positivo: " Fa agli altri quello che vorresti fosse fatto a te" .
Sotto questo aspetto è giusto dire che " l'uomo è un animale politico " : una definizione che si trova già in Platone e in Aristotele, il quale osservava che, se l'uomo potesse vivere da solo, sarebbe una belva o un dio. Oggi tuttavia questa espressione viene distorta a un significato ristretto alla prassi politica, come se dicesse che tutto ciò che l'uomo fa o dice, che ogni sua posizione, lo mette fuori o dentro un partito, pro o contro un'ideologia determinata. Questo senso ristretto è ovviamente arbitrario perché la politicità essenziale dell'uomo consiste solo nel complesso dei rapporti che lo legano alla comunità umana e non nell'ideologia che egli sceglie di seguire nella prassi politica. Certamente questa ideologia può influire sul giudizio che l'uomo può formulare sui rapporti coesistenziali e deciderlo a progettarne la conservazione o il mutamento, il rafforzamento o la distruzione. L'uomo può infatti anche cercare di liberarsi dai legami che lo legano agli altri e aspirare per suo conto a quello stato di belva o di divinità autonoma, che Aristotele poneva come alternativa. Ma anche in tal caso quei legami non sono distrutti perché nella realtà della vita continuano ad esercitare la loro azione condizionante sia pure soltanto come termine negativo, come ostacolo da superare o vanificare.

3. La "terza via"
C'è dunque un senso nel quale la politicità dell'uomo deve essere considerata come l'aspetto essenziale dell'uomo stesso, come elemento ineliminabile di tutti gli aspetti dell'esistenza. Ed è, per questa politicità che si fa appello (come accade oggi da più parti e con sempre maggiore insistenza e frequenza) ad una terza via che la comunità umana dovrebbe intraprendere per uscire dalla situazione difficile alla quale lo sviluppo tecnologico e gli ordinamenti politici l'hanno condotta. La terza via non è l'anticipazione o il modello o il progetto di un ordinamento politico ed economico, ma il progetto di un uomo che vuole salvare se stesso. Parte dal convincimento che gli attuali ordinamenti politici ed economici, anche quando sono animati dalla buona intenzione di realizzare la libertà e la giustizia (ma spesso, invece di queste buone intenzioni, c'è, soltanto la volontà di dominio) dimenticano i bisogni e le esigenze degli uomini, limitano arbitrariamente le loro scelte, tendono a ridurli ad unità anonime di una massa compatta che si può modellare come si vuole. Ogni uomo aspira ad essere se stesso e a sentirsi, come se stesso, in armonia con gli altri nella reciprocità di un rispetto e di una simpatia universali. Su questa ispirazione sono fondati tutti i valori della vita. La crisi di tali valori è oggi la crisi dell'uomo che non sa o non può riconoscere se stesso e perciò non riconosce neppure negli altri la dignità umana. I casi estremi di questo disconoscimento riempiono le cronache giornaliere: la ricerca di futili piaceri che lasciano insoddisfatti o umiliati, l'abiezione e la droga; e dall'altro lato, la violenza che si affaccia in tutte le manifestazioni della vita, oltre che sulla scena politica e nella delinquenza vera e propria, e così diventa gratuita, cioè senz'altro scopo che se stessa. Ma al di qua di tali estremi, c'è la vasta zona dell'in- comprensione reciproca, dell'egoismo che non sopporta concessioni e così si moltiplica, nel conflitto sempre acceso tra stati e popoli, tra gruppi e classi sociali, e tra individui anche legati assieme da vincoli familiari o sociali.
Non si tratta di una situazione riscontrabile in un regime determinato ed assente nell'altro. La grande disputa nata nell'ottocento tra capitalismo e comunismo ha perso molto del suo significato. Mentre il capitalismo si è evoluto verso forme di stato che pretendono garantire a tutti i costi il benessere dei cittadini con una programmazione crescente che diminuisce la loro libertà di iniziativa, il comunismo si è rivelato nelle sue forme storiche un capitalismo di stato che nega in linea di principio questa libertà e con essa annulla o reprime tutte le altre. La pianificazione minuziosa, che rimane l'intento di entrambi i regimi, si rivela sempre più mortificante per l'interesse che l'uomo deve nutrire per il lavoro che lo fa vivere, e ne diminuisce l'impegno e l'efficienza. Spesso questa pianificazione si rivela erronea ed improduttiva per gli stessi fini che si era proposta; e in ogni caso tali fini sono assolutizzati e ritenuti in forma rigida ed esclusiva sicché si contraddicono, e si limitano o annullano l'uno con l'altro. L'incremento illimitato della produzione, la massima disponibilità di beni, l'efficienza militare, sono alcuni di questi fini che producono, come effetti collaterali immancabili, il consumismo o la povertà dei consumi, i conflitti sociali e le guerre potenziali che fanno capolino in varie parti del mondo. E intanto si accrescono le disparità economiche tra ceti sociali e tra popoli, diversi tra loro ma resi sempre più solidali, loro malgrado, da una rete che si infittisce di rapporti di affari e di comunicazione di massa.
Quale uomo può riconoscersi a casa propria in uno di questi regimi dei quali è soltanto uno strumento di lavoro o un destinatario di merci o il servizievole gregario di una ideologia politica o dello stato? Ulisse, l'eroe omerico che volle tornare nella sua isola povera, superando non solo i pericoli ma anche gli allettamenti di alternative che sembravano più ricche e felici, non saprebbe oggi dove rivolgersi. Simile a Ulisse è oggi l'uomo contemporaneo che porta nel cuore la sua isola ma non sa dove trovarla né se essa esiste. Ma per cercarla gli occorre almeno che sappia rendersi conto delle sue possibilità e guardare con occhio vigile la realtà in cui vive, progettare la sua vita nella misura che le consenta di fiorire ed esprimersi liberamente.

4. La via della misura
La terza via è appunto quella della chiarezza e della misura umana. Non rinnega i vantaggi che l'organizzazione tecnologica del mondo moderno ha portato agli uomini, dando ad essi la possibilità di sopravvivere in un numero sempre maggiore, di condurre una vita più confortevole o meno disagiata, di sottrarsi quasi del tutto alla fatica rozza e massacrante dei tempi andati. Non propone il ritorno, idealizzato da più parti e tentato qua e là da gruppi isolati, ad una forma primitiva di vita, ridotta alla soddisfazione dei bisogni elementari e ad uno stato di miseria appena sopportabile. E', questa, una delle utopie ricorrenti nel mondo occidentale come nostalgia di un "buon selvaggio" che probabilmente non è mai esistito. Non propone utopie di altro genere che potrebbero essere imposte o malamente realizzate, e solo in qualche loro aspetto, da forze preponderanti che farebbero dell'uomo uno schiavo. Non accetta neppure come definitivo insuperabile o soltanto "da perfezionare" lo stato delle cose di cui non si nasconde i mali attuali e i pericoli futuri. Verso quale meta allora essa può dirigere il cammino dell'uomo?
Verso un mondo a misura d'uomo. Questa esigenza viene oggi affacciato da più parti come rimedio ai danni che l'opera dell'uomo sta provocando nel mondo che lo ospita. Questo mondo diventa sempre più brutto, più povero di vita e più ricco di rifiuti. Il ciclo naturale che fa rinascere dal disfacimento e dalla morte nuove, forme di vita sembra impedito, o indefinitamente ritardato, dall'opera dell'uomo. Le fonti naturali di energia vengono sfruttate e rapidamente condotte al consumo da uno spreco imprevidente. L'ambiente naturale peggiora rispetto alle possibilità di ogni forma di vita e perciò anche rispetto all'uomo nei cui confronti diventa sempre meno salutare. Sulla base di queste considerazioni la tecnologia, c'la scienza che ne è madre, hanno subito nei decenni trascorsi condanne radicali accompagnate dalla proposta utopistico della loro abolizione totale in una società di uomini semplici, paghi di vivere nella contemplazione della bellezza della natura. Si è risposto, dall'altro lato, che la scienza e la tecnologia possono anche trovare, e già in parte dispongono, di mezzi adatti a riparare i mali che esse stesse producono, ripristinando la capacità di reintegrazione dei cieli naturali, impedendo ai processi disintegrativi di operare o di estendersi. Il che è senza dubbio vero, ma solo in limiti determinati, giacché, oltre il costo enorme dei processi reintegrativi, c'è, la prospettiva impellente dello squilibrio, che a un certo punto sarebbe fatale, tra la loro possibilità di azione e l'incremento illimitato dello sfruttamento.
Ciò che si dimentica in tutto questo è la misura. Si oscilla tra due estremi che la ignorano. 0 si vuol fare dell'uomo l'ospite puro e semplice dell'ambiente naturale, un ospite che si contenta di ciò che quest'ambiente spontaneamente gli offre, o si continua ad accettare l'aumento indiscriminato dello sfruttamento delle risorse, proponendo nello stesso tempo rimedi artificiali che dovrebbero risanarle. Ma l'alternativa autentica (quella della terza via) non sta in mezzo tra questi due estremi: sta invece nella ricerca di una misura, da stabilire in modo preciso e concreto, caso per caso, da imporre ad ogni tipo o forma di attività umana che direttamente o indirettamente, a breve o a lunga scadenza, impoverisca la natura o strumentalizzi l'uomo. L'uomo certo non può vivere senza utilizzare le risorse che la natura gli offre: anche la fabbricazione dei più semplici utensili, la caccia, la pesca e qualsiasi lavoro umano non può attingere che dalla natura le sue risorse e le sue possibilità di sviluppo. Né il rispetto per la natura può costringere l'uomo a rinunciare alla sopravvivenza o a mantenersi in una povertà che lo umili e gli renda impossibile le attività disinteressate della vita. L'importante, anzi l'essenziale, è che il rapporto tra l'uomo e la natura non sia di guerra ma di collaborazione , e può esserlo solo se dettato da una misura opportuna.

5 . L'uomo come misura
L'uomo stesso è questa misura. Già i suoi caratteri ereditari dipendono da un equilibrio genetico che costituisce la misura della loro trasmissione. La sua crescita e il suo sviluppo dipendono sostanzialmente dalla misura in cui riceve cibo, assistenza ed aiuto fisico, affettivo e intellettuale. L'eccesso di questo aiuto, come la sua deficienza, gli riescono perniciosi. Tra i bisogni che costituiscono un saldo legame con la natura e con gli uomini non ce n'è alcuno che possa essere soddisfatto al di là di un certo limite senza danno o rovina. E non v'è cibo o bevanda (neanche l'acqua e il pane) che, ingerito senza misura, non si trasformi in veleno. Non c'è piacere che possa essere indefinitamente prolungato senza trasformarsi in noia o disgusto. Gli aspetti molteplici della vita umana, le attività diverse in cui essa deve trovare la sua espressione, devono, per raggiungere l'equilibrio costitutivo della personalità umana, contemperar- si tra loro, limitandosi a vicenda e conservando ognuno la sua misura. E l'equilibrio è sempre in- certo o pericolante per l'oscillazione degli elementi tra i quali intercorre. Solo la ricerca di questo equilibrio, lo sforzo vigile per ripristinarlo ogni qualvolta minaccia di venir meno, è la condizione indispensabile della sua stabilità relativa.
In questa ricerca, ciò che si chiama "intelligenza" o "ragione" ha la sua funzione predominante. Ma questa funzione non la isola e non la privilegia. Essa sarebbe una forma vuota o un esercizio gratuito se non si intrecciasse con tutti gli altri aspetti della vita, che agiscono su di essa come essa agisce su di loro. L'uomo perde il suo equilibrio e la sua personalità vacilla o si scinde, quando un aspetto qualsiasi della sua vita si esalta a danno degli altri e cerca di ignorarli o bloccarli. Questo può accadere ed accade nella vita pratica come nella teoria. L'uomo è continuamente esposto al rischio di queste esaltazioni che lo fanatizzano in un senso o nell'altro, facendogli dimenticare se stesso. L'attività economica con la sua prospettiva di ricchezza e di potenza, !'istinto con la sua prospettiva del piacere incondizionato, la politica con la sua prospettiva di dominio, la ragione con la sua prospettiva di giustificazione totalitaria, sono stati e sono tra le forme dominanti cui può dar luogo l'oblio della misura umana. Queste forme, come le altre che si potrebbero addurre, negano l'uomo e negano gli uomini. Chi le propone o le realizza considera gli uomini come strumenti di questa realizzazione; ma con ciò pone se stesso sullo stesso livello. Tali umani strumenti dovrebbero servire unicamente a sviluppare ed estendere all'infinito, cioè al di là di ogni limite o misura, l'attività che si propone come dominante. Certo questa posizione è essa stessa frutto di libertà, perché l'ignoranza e la trasgressione della misura umana non potrebbero essere realizzate se questa misura fosse imposta da una forza qualsiasi con necessità ineluttabile. Ma, mentre è frutto di libertà, nega la libertà stessa rendendo l'uomo strumento e negandogli la possibilità di realizzarsi per la vita da lui scelta.
E' questa veramente una considerazione chiave per la determinazione e la comprensione della misura umana. La libertà può scegliere anche la negazione o l'annullamento di se stessa, mediante la subordinazione dell'uomo a un fine che, direttamente o indirettamente, esplicitamente o implicitamente, la neghi. Ma in tal caso è solo libertà apparente o illusoria o provvisoria, perché è la propria negazione. La libertà autentica è sempre una struttura nella quale i mezzi non negano il fine né il fine i mezzi. Un atto veramente libero non tende ad annullare la libertà, come un atto d'amore non tende ad annullare l'amore. Ogni lotta o conflitto fra gli uomini, come ogni loro rapporto, trova in questo il suo immanente criterio di valutazione. L'uomo può distruggere solo costruendo. La distruzione per la distruzione, la violenza per la violenza, sono insieme una manifestazione della libertà e la fine della libertà stessa.

6. L'infinito e l'uomo
Nessun aspetto della vita umana si sottrae alla possibilità di una esaltazione fanatica che finisce per tradirlo o per capovolgerlo nel suo contrario. La libertà stessa, che è il più alto valore dell'uomo e la condizione della sua dignità, non si sottrae alla possibilità di questa esaltazione che rischia di travolgerla e di annullarla. Questo accade quando essa viene intesa come un potere assoluto e creativo, che non ha limiti né condizioni e non deve obbedire a nessuna regola. Una tale libertà supporrebbe nell'uomo l'indipendenza assoluta da ogni rapporto con tutti gli altri esseri del mondo, sicché ogni scelta da essa operata sarebbe una creazione dal nulla. Questa idea della libertà può apparire (ed è) assurda nei termini che la chiariscono; ma è tuttavia la base di alcune ideologie e di molti atteggiamenti dominanti nella nostra vita quotidiana. Si crede infatti oggi ad una spontaneità assoluta dell'individuo umano, che dovrebbe trarre unicamente dal fondo del suo essere le ragioni della sua vita e i mezzi per realizzarsi. E si condanna conseguentemente, senza distinzione ed in blocco, ogni limite che l'individuo incontra o pone a se stesso, respingendolo nella zona maledetta della "repressione". Si esalta così la capacità dell'individuo di essere tutto, di volere tutto e di provare ogni cosa, aprendo la via alle degenerazioni peggiori che portano !'individuo stesso sulle strade senza ritorno della violenza e della droga. E nel campo dell' educazione si esalta un "permissivismo" radicale che finisce per affidare la formazione stessa dei giovani alle influenze a prima vista più allettanti dell'ambiente, senza stimolare in loro alcuna capacità di reazione e di difesa, alcuna possibilità di un giudizio indipendente. Chi soggiace a questa vicenda diventa incapace di lottare per la libertà, per la sua come per quella degli altri, perché la libertà si realizza e si difende proprio in questa lotta, mediante scelte concrete che risolvono certe situazioni e sono suscettibili di essere mantenute e rinvigorite da scelte omologhe successive.
L'eredità deteriore del romanticismo è alla base di questi atteggiamenti assolutizzanti. Il romanticismo ottocentesco ha esaltato la presenza nell'uomo dell'Infinito e si è compiaciuto dell'insoddisfazione e del disgusto che l'uomo prova di fronte al limite, all'imperfezione e alla misura. Ha fatto appello perciò a Forze o Principi che, per la loro infinita potenza, travolgono o assorbono in sé ogni limite e ogni ostacolo: alla Ragione, che è la realtà stessa e perciò la giustifica tutta; alla Scienza, che può conoscere tutto e quindi dare all'uomo la felicità perfetta; alla Storia, che nel suo progresso supera e annulla ogni male.
Oggi queste forme dell'Infinito hanno perduto quasi tutto il loro credito e sono considerate poco più che miti fallaci. Ma la brama dell'infinito è rimasta nascosta e operante in altri miti, che sono ugualmente illusori e forse più perniciosi, perché assolutizzano questo o quell'aspetto della vita umana e vedono in essa solo l'organizzazione economica o quella politica o solo la spontaneità,o solo le cose opposte, senza preoccuparsi dell'uomo che agisce in queste forme e che da esse dovrebbe ricevere aiuto, solidarietà e conforto perla propria vita personale e interpersonale. Il ricorso all'infinito è una scappatoia comoda perché sembra annullare il rischio e risolvere tutti i problemi. Ma la prospettiva è soltanto apparente e le amare delusioni che esso ha preparato e prepara sta svegliando gli uomini dal torpore in cui li aveva gettati. L'uomo deve accingersi a riconoscere e affrontare, in tutti i campi, i suoi rischi, se vuole sopravvivere come uomo e non soltanto come bestia. Deve in primo luogo prendere atto della propria situazione nel mondo e delle condizioni che lo limitano. Deve effettuare scelte, che non sono mai totalitarie ma sono efficaci soltanto se conservano e rafforzano la sua facoltà di scelta. Deve infine uscire dall'isolamento fittizio in cui lo confinano pregiudizi ed ideologie e realizzare una solidarietà operosa che faccia fronte comune contro i pericoli.
All'Infinito egli può far ricorso solo nella forma che le grandi religioni, e il cristianesimo in particolare, gli hanno sempre prospettato, cioè come speranza in un aiuto che egli può ricevere da una Potenza in cui egli abbia fede e da cui può attingere resistenza, coraggio e capacità di amore. Solo l'Infinito che si prospetta alla fede e alla speranza e si attua nell'amore, non fa dimenticare l'uomo, non lo annulla in un'entità fittizia e gli consente di sentirsi e di rafforzarsi nella sua umanità autentica.

Nicola Abbagnano