Pubblicazione in formato elettronico su www.abbagnanofilosofo.it
- 2002
Nicola Abbagnano: la generosità di un maestro
Nicola Abbagnano: la generosità di un maestro
La richiesta di informazioni circa le origini e l'idea dei "Quaderni di Sociologia" mi provoca una sorta di tempesta interiore. E' un fatto che l'idea dei "Quaderni" viene da lontano e si lega strettamente, forse inestricabilmente, al bisogno e alla passione che fin da giovanissimo avvertivo per la sociologia. E' vero che ho sempre avuto dentro di me l'esigenza di una rivista, di poter parlare alle persone conosciute ma anche, e più ancora, a quelle sconosciute attraverso un organo di stampa periodico, di cui fossi responsabile. Un primo tentativo di adolescente lo feci con "Progredi", un foglio durato pochi mesi. Non è un'esperienza in Piemonte molto originale. Ricordo che proprio a Torino il giovanissimo Piero Gobetti, prima ancora di "Rivoluzione liberale" aveva dato vita a "Energie Nuove".
Correvano gli ultimi anni Trenta. Ero un ragazzo inquieto. A credere alle testimonianze delle persone che allora mi conoscevano, ero anche piuttosto inquietante. Leggevo molto, voracemente, aiutato da una memoria prodigiosa. Per tenermi tranquillo e, fino a un certo punto, sotto controllo, un mio caro cugino primo, Mons. Leopoldo Ferrarotti, mi dava da studiare un canto al giorno della Divina Commedia, la sera per il mattino dopo. Esaurito Dante, mi aveva assegnato le Vite degli uomini illustri di Cornelio Nepote, in latino, tutto a memoria.
Alle soglie della pubertà mi aveva colpito quello che dalle nostre parti si chiamava un "esaurimento nervoso", una sorta di collasso neurovegetativo, complicato da tendenze allucinatorie, forse un sospetto di schizofrenia, scarsa percezione del reale. Il tutto, in un corpo già minato da due broncopolmoniti in giovanissima età, fra i due e i cinque anni, che mi avevano portato in fin di vita. Le sole scuole da me frequentate regolarmente furono i cinque anni delle scuole elementari, con la maestra Piera Mandelli per le prime tre, e il maestro Francesco Rossino, per la quarta e la quinta. Dopo. Sia alla licenza ginnasiale, che alla maturità classica dovetti presentarmi come privatista.
Leggevo tutto il giorno, chiuso nello stanzone all'ultimo piano di casa mia, dove qualche parente aveva disordinatamente accumulato una gran quantità di libri, da un dizionario della lingua piemontese ai sermoni del Cardinale Capecelatro e alla Grammatica comparativa delle lingue indoeuropee di Franz Bopp. Leggevo e tossivo. Preoccupati e temendo una fatale ricaduta, i miei mi mandarono a Sanremo, allora come oggi famosa per l'aria buona. Ma i miei non sapevano - non potevano sapere - che a Sanremo trascorrevo le mie giornate nella biblioteca comunale, allora nella Sanremo vecchia, in Piazza del Municipio, 11 o 13.
Prima dei "Quaderni" avevo pensato e cominciato a pubblicare - eravamo agli inizi del 1946 o alla fine del 1945 - un periodico dal titolo programmatico "La rivoluzione umana - Quindicinale della generazione nuova". Nel titolo si sentiva distintamente l'influenza gobettiana. Benché sostenuto da un contributo e da un abbonamento, del tutto inattesi, dell'allora presidente della Assemblea Costituente, Umberto Terracini, il periodico non ebbe molta fortuna. Lo stampavo in una piccola tipografia di Casale Monferrato, ancora oggi in funzione. Stampa "La Voce del Monferrato". Di tendenza essenzialmente anarchica, "inviso a Dio e a li inimici sui", bruciato in piazza dai fascisti e dai comunisti, "La rivoluzione umana" chiuse i battenti al terzo numero doppio.
Ancora non lo sapevo, ma stavo solo facendo le prove per fondare una rivista scientificamente più critica, ma sempre aperta sui problemi del presente, non accademica nel senso deteriore del termine. Posso dire che l'idea dei "Quaderni" prende corpo dopo il fallimento di "La Rivoluzione umana", e mi accompagna durante tutta la laboriosa traduzione dell'opera iconoclastica La teoria della classe agiata di Thorstein Veblen, uscita da Einaudi il 3 gennaio 1949. Laureatomi a Torino con Nicola Abbagnano, mi sentivo pronto (eravamo nell'inverno 1949-50 e dall'autunno 1948 avevo incontrato e cominciato a collaborare con Adriano Olivetti) a dar corso all'impresa di una rivista rigorosamente scientifica, ma extra-accademica.
Ma perché una rivista? E perché quel titolo? Non ero mai stato uno studente modello. Augusto Guzzo, che aveva rifiutato di firmarsi la tesi (la firmò, generosamente, Nicola Abbagnano a scatola chiusa), mi chiamava il suo "clericus vagans". Trovavo la filosofia, soprattutto quella neo-idealistica e spiritualistica, che era allora dominante, pomposa e astratta nello stesso tempo; d'altro canto, le lezioni di economia politica di Bordin, che avevo seguito per qualche tempo a Piazza Arbarello (a Torino, dove Bordin teneva le sue lezioni nella Facoltà di Economia e Commercio), mi parevano noiose e inutilmente matematizzate. Volevo qualche cosa di scientificamente rigoroso, ma vicino all'esperienza quotidiana del vivente. Per me, era la sociologia. Con l'idea dell' "uomo in situazione", l'esistenzialista positivo Nicola Abbagnano mi era, senza che io lo sapessi all'epoca, molto vicino.
La prima persona con cui parlai esplicitamente dei "Quaderni di Sociologia" fu una studentessa di Abbagnano che stava per laurearsi, Magda Talamo, e poi ne parlai anche con una sua amica, Anna Anfossi. Insieme si voleva fare un centro di ricerche, che da tempo proponevo, il CRIS (che poi, quando io me ne andai per il mondo, loro due fecero). Recentemente, a Torino, in occasione della commemorazione di Nicola Abbagnano all'Università in Via Po, Magda Talamo, divertita, mi ricordava di quando, un giorno del 1950, la mattina (presto per dei cittadini) saranno state le sei e mezzo o le sette, fu svegliata di soprassalto dal padre che le diceva : "Magda alzati, vestiti: c'è un giovanotto pazzo in mezzo al cortile (era il cortile interno dei vecchi caseggiati degli impiegati e della piccola borghesia) che urla e smanazza: "Magda, vieni giù. Vieni giù subito. Dobbiamo parlare dei "Quaderni" ". Era proprio così. I "Quaderni" erano diventati per me un ' ossessione. Ne parlavo spesso anche con Pavese. Cesare Pavese mi consigliava di mettermi insieme con la "cocca" (così diceva) di "Cultura e realtà", una rivista che stava per uscire a Roma, con Natalia Ginzburg, Mario Motta, Felice Balbo, Giorgio Ceriani Sebregondi, lui stesso e altri. Ma io, a naso, a giudicare dal comitato di redazione, trovavo l'imprese piuttosto precaria, e avevo ragione. Di "Cultura e realtà" non uscirono che due o tre numeri.
Una possibilità c'era, con la "Rivista di Filosofia", che in quel momento era pubblicata da Olivetti con le edizioni di Comunità. Ma giocavano contro questa apparentemente ragionevole soluzione, due difficoltà piuttosto per me massicce: 1) non volevo aver niente da spartire con la filosofia "tradizionale"; 2) in secondo luogo, non volevo fare pasticci con Olivetti; i "Quaderni" dovevano essere gelosi della loro autonomia, né con l'università né contro l'università, ma neppure al servizio di pur nobili ideali; dovevano servire solo a condurre una battaglia strettamente sociologica.
Anche per questo motivo, rifiutavo ostinatamente qualsiasi apertura per un incarico di filosofia. No. Ero pronto a imbarcarmi, ma solo per la sociologia. Fu allora che di fronte alla mia ostinazione, Abbagnano, un giorno di fine '50, mi invitò a casa sua, in Via Talucchi. Si mangiò; si parlò del più e del meno; lui fumò una mezza sigaretta; io tracannai un bicchiere di rosso. Stavo per andarmene. Marian, mi spiegò, era la sua seconda moglie. Era americana. Non era neppure il caso di dirlo. Lo vedevo da me. Alta, bionda, slanciata, con lo sguardo diritto e fermo di un'autentica businesswoman. Non avevamo parlato molto, ma coglievo una certa simpatia nei suoi occhi chiari. Sulla porta, Abbagnano mi fa: "Senti, Franco. Mi sembra che tu abbia qualche difficoltà a trovare uno che ti stampi i "Quaderni". Sai, mia moglie Marian ha una piccola casa editrice, la Taylor. Potremmo stamparla noi. Tu naturalmente saresti il direttore e il proprietario, hai avuto tu il permesso di stamparla dalla Questura. Io ti aiuterò". La sua generosità incantava, detta in poche parole, sottovoce. Nell'estate del 1951 usciva il primo numero dei "Quaderni", con il mio "Piano di lavoro", e lui, Abbagnano, in funzione di vice-direttore. La cosa mi sembrò naturale. Ma aveva del miracoloso.
Nei miei propositi, i "Quaderni di sociologia" erano innanzitutto uno strumento di battaglia culturale, e nascevano in funzione extra-accademica e anche, occasionalmente, aspramente anti-accademica. A ripensarci, è straordinario come Abbagnano, già da anni professore ordinario nell'università di Torino, mi assecondasse in questo senso. Forse, per capire a fondo questa situazione, bisogna ricordare che Abbagnano si era formato alla scuola di Aliotta, al di fuori dell'influenza crociana e gentiliana. Lombardi (Franco), anni dopo, mi diceva che ero stato io, con la sociologia, ad offrire ad Abbagnano una via d'uscita, attraverso la ricerca sociologica, capace di chiarire le condizioni effettive dell' "uomo in situazione" dell'esistenzialismo positivo di Nicola Abbagnano.
Sta di fatto che fin dai primi numeri dei "Quaderni" Abbagnano incrociò il ferro con grande decisione con i rappresentanti dei neo-idealismo. Era appena uscito il primo numero dei "Quaderni" che apparve, estate del 1951, un articolo duramente polemico di Carlo Antoni, crociano di stretta osservanza, nel settimanale diretto da Mario Pannunzio, "Il Mondo", che raccoglieva soprattutto gli intellettuali di orientamento liberal-crociano: da Enzo Forcella al giovane Eugenio Scalfari, e i liberali detti "radicali". L'articolo di Antoni si intitolava "La scienza dei manichini" e ripeteva le solite obiezioni alla sociologia, considerata come la disciplina che mirava a studiare il comportamento umano, riducendo però le condotte degli individui a rigide tipizzazioni e con ciò negando l'imprevedibile "spiritualità" delle persone. Era il vecchio argomento già usato da Croce nella polemica con Vilfredo Pareto agli inizi del Novecento.
Abbagnano rispose punto per punto con un articolo intitolato "I manichini della scienza", in cui ritorceva contro i neo-idealisti la loro inadeguata concezione della ricerca scientifica e difendevano la possibilità e, anzi, la necessità di analizzare gli individui e il mondo umano, le condizioni delle persone e la struttura delle istituzioni con gli strumenti delle scienze sociali. Anni dopo, in occasione di un convegno tenutosi a Roma sul tema "Abolire la miseria" al teatro Vittoria di Via Vittoria nei pressi di Piazza di Spagna, in cui avevo tenuto una relazione su "Sociologia e realtà sociale", insieme con Guido Calogero, Riccardo Lombardi, Ernesto Rossi (gli atti furono pubblicati sulla rivista fiorentina "Criterio", diretta da Carlo Ludovico Ragghianti), Carlo Antoni riconobbe esplicitamente l'utilità della sociologia non solo come funzione classificatoria, secondo il pensiero di Croce, ma anche come disciplina capace di offrire risultati conoscitivi in senso pieno.
Lo stesso anno in cui uscì il primo numero dei "Quaderni", estate 1951, a giugno partivo per gli Stati Uniti. L'anno prima, 1950, Olivetti era stato colpito dal suo primo infarto. Le iniziative di cui ero responsabile erano praticamente ferme, specialmente per l'opposizione della famiglia. Io decisi allora, contro la volontà dello stesso Adriano Olivetti, di andarmene in America. Anche Pampaloni (Geno) mi sconsigliava di lasciare la Olivetti in quel momento. C'era un gran movimento di posizioni all'interno della ditta: Tullio Fazi, direttore della pubblicità, sarebbe andato a Napoli a dirigere la nuova fabbrica di Pozzuoli; Ignazio Weiss, segretario personale di Olivetti, sarebbe andato alla pubblicità; lui, Pampaloni, stava bene dove stava, a dirigere la biblioteca; sarebbe toccato certamente a me fare il salto e diventare, giovanissimo, segretario personale del Presidente Olivetti, ecc. ecc. Ma nessuno poteva rendersi conto del fascino che l'avventura, la scoperta dell'America potevano esercitare su un giovane come me. Il viaggio in America, che allora si poteva fare solo per nave (gli aerei ad elica e poi a reazione sarebbero venuti anni dopo), era ancora concepito come un' impresa pericolosa, ai limiti dell'irresponsabilità. La traversata dell'Oceano Atlantico, che viene oggi familiarmente chiamato l' Atlantic rivers, se non l'Atlantic lake, all'epoca si presentava piena di incognite. Era di dominio pubblico che molti emigranti non erano mai più tornati. Gli anni '50 sapevano ancora di guerra. Anche per queste ragioni, prima di imbarcarmi su una piccola nave bianca, l'Atlantic, della Home Lines, da Genova, il 10 o l'11 giugno 1951, lasciai a mani di Marian Taylor una lettera di questo tenore (cito a memoria): "Nel pieno possesso delle mie facoltà fisiche e mentali, dichiaro che, in caso di mia morte o comunque di non ritorno dagli Stati Uniti, va riconosciuta la proprietà dei "Quaderni di sociologia" a tutti gli effetti alla casa editrice di Marian Taylor".
Dalla fondazione a tutto il 1967, quando diressi i "Quaderni", ebbi grandi soddisfazioni. Forse fu un errore, una volta ottenuta la cattedra all'università di Roma - era la prima cattedra a livello pieno di sociologia nell'università italiana - chiamare alla redazione dei "Quaderni" degnissime persone, che erano però estranee allo spirito originario dell'impresa che, nei suoi indubbi limiti, mi aveva dato notevoli risultati. Basti ricordare che al terzo numero, mentre io mi trovavo negli Stati Uniti, fui raggiunto da una lettera del presidente della Repubblica in carica, Luigi Einaudi, il quale mi mandava alcune carte topografiche e ottime considerazioni sulla divisione della proprietà agricola in quel di Castellamonte, un comune canavesano cui avevo dedicato un rapporto di ricerca in due puntate.
Personalmente, non avendo alcuna esperienza del mondo accademico, essendo a tutti gli effetti un outsider, credo di aver sottovalutato le grandi pressioni che si sarebbero scatenate per nuovi concorsi e nuove cattedre, tanto più che a sociologia, nuova disciplina priva di controllo interni molto rigidi e collaudati (come, per es., medicina e giurisprudenza), avrebbero aspirato tutti coloro che si sentivano esclusi dalle più antiche materie, dai filosofi agli storici e agli italianisti. Ricordo in proposito, poiché la riunione prevedeva anche una discussione sui "Quaderni di Sociologia", un incontro a Roma nel 1962, nell'ufficio di Sergio Cotta, titolare di filosofia del diritto, alla "Sapienza", con Norberto Bobbio. Questi mi disse (cito a memoria e riassumo) : "Caro Franco, hai una grande responsabilità. Resisti alle pressioni. Ti voglio ricordare un colloquio fra Cesare Musatti, psicologia, alla Statale di Milano, Agostino Gemelli, della Cattolica: una cattedra a te, una cattedra a me, poi ancora una a te e una a me, e poi basta. Si chiude". Questa impostazione, come dire? malthusiana, mi era, ovviamente, profondamente estranea. Debbo però oggi ammettere a distanza di tanti anni, nel momento in cui la sociologia è tanto diffusa quanto mal compresa e grossolanamente strumentalizzata, che forse l'aneddoto ricordatomi da Bobbio aveva molto più senso di quanto io non fossi disposto a riconoscergli.
Franco Ferrarotti
Università "La Sapienza" - Roma, Luglio 2002