filosofo del '900
in "La Stampa", 19 Settembre 2010 - 2010
Il mondo senza verità del giovane Abbagnano
Dell’illuminismo si riparla costantemente, perché giustamente si ritiene che senza di esso non si possa capire la modernità. Non succede lo stesso con il neoilluminismo, che fu un movimento di pensiero italo-torinese, potremmo dire, giacché ne furono esponenti principali filosofi come Nicola Abbagnano, Norberto Bobbio, Ludovico Geymonat, che negli anni Cinquanta del Novecento intesero costruire sotto questo nome una base filosofica per quella cultura laica che faticava allora ad affermarsi tra gli opposti dogmatismi della tradizione cattolica e dell’ortodossia marxista. Ora la ristampa, per le Edizioni Marte di Salerno, a cura di G. Cantillo e A. Donise, della prima opera di Abbagnano (che appunto a Salerno era nato nel 1901) dedicata a Le sorgenti irrazionali del pensiero, uscita per la prima volta nel 1923, può essere una buona occasione, oltre che per ripensare l’eredità filosofica dell’autore, anche per domandarsi che cosa sia rimasto del neoilluminismo italo-torinese.
Se lo si guarda alla luce delle idee del giovane Abbagnano, che egli non rinnegò mai e che fanno da sfondo a tutto il suo ulteriore cammino di pensiero, salta subito agli occhi che la ripresa dell’illuminismo che si tentò da parte di quel gruppo si deve oggi leggere piuttosto come una prosecuzione del pragmatismo che come una rivendicazione del razionalismo e ancora meno di realismo scientista. Un esito simile non può vedersi nemmeno nell’esponente più "epistemologico" del gruppo, Ludovico Geymonat. E certamente non in Abbagnano, che anzi nel libro del 1923 proponeva una peculiare forma di irrazionalismo, nel quale prendeva le distanze da ogni teoria della verità come corrispondenza per affermare uno sperimentalismo molto vicina a William James e a Dewey, pensatore quest’ultimo che Abbagnano riprese tematicamente proprio negli anni del neoilluminismo e di quello che chiamò l’esistenzialismo positivo.
Persino le belle e illuminanti pagine dedicate, nel libro del 1923, a Kant hanno un netto sapore pragmatista. E, come gran parte delle ricostruzioni critiche dei concetti filosofici di verità sviluppate nei vari capitoli, rivelano una freschezza e una sapienza espositiva che danno a quest’opera - giovanile in tanti sensi della parola – un sapore di ancora vivissima attualità.
Gianni Vattimo
In: "La Stampa", p. 36, 15 marzo 2009