filosofo del '900
in "L'Epresso", n. 51, 27 Dicembre 2005, pp.122-124 - 2005
Vivere con filosofia
Ormai si è organizzato anche a Torino un festival della spiritualità, con grande successo di pubblico, e possiamo aspettarci che presto competa con il Festival della filosofia che da qualche anno si svolge a Mode-na e dintorni per iniziativa del Collegio San Carlo. Domanda: perché tanta popolarità per una disciplina, la filosofia, “con la quale, per la quale, senza la quale”, come suona il detto popolare, “tutto rimane tale e qua-le”? Una prima cinica risposta potrebbe essere: perché la tv ormai ha stufato. Oppure, come avevo ipotizzato anni fa in occasione del successo editoriale di una storia della filosofia a dispense (va bene che era opera del grande Severino!): “Gratta il barile e trovi Parmenide”. Cioè: quando ormai tutte le tematiche dell' attualità, della cultura comune, ecc. sono consumate, anche la filosofia può diventare una roba buona per le edicole.
Tutte queste possibili risposte solo semiserie hanno una loro verità, che in fondo corrisponde bene a quella certa sazietà che si impadronisce dell'uomo contemporaneo potenzialmente "onnisciente" e però malato della "malattia storica" di cui parlava già il giovane Nietzsche. Noi tardo moderni super-informati, o almeno con tutto lo scibile a disposizione nelle reti telematiche e nei canali televisivi, oltre che nei libri, ci aggiriamo nel giardino della storia (passata) come in un deposito di maschere teatrali, che ci piace provare e lasciare a nostro piacimento, con un finale risultato di noia quando non decisamente di angoscia, forse la stessa del don Giovanni di Kierkegaard. Allora, dovremmo fare il salto nell'etica, come Kierkegaard voleva facesse il seduttore del suo "Aut-aut"?
Una bella cura, omeopatica perché sempre di storia si tratta, potrebbe essere proprio ripercorrere le filosofie del passato sotto la guida di un grande pensatore esistenzialista, e cioè di uno che la lezione di Kierkegaard l'aveva profondamente assimilata e che guardava ai filosofi senza alcun atteggiamento estetistico, ma cercandovi degli esempi per ripensare se stesso e il senso della propria esistenza. È con questo spirito che Nicola Abbagnano, professore all'Università di Torino fino a pochi anni prima della morte (avvenuta nel 1990), aveva costruito il suo grande "manuale" di storia della filosofia, pubblicato per la prima volta nel 1946, e poi continuamente aggiornato negli anni, sia per seguire gli sviluppi della filosofia contemporanea, sia per tener conto di nuove scoperte, nuove edizioni di testi, nuove interpretazioni delle filosofie passate. Questo lavoro di aggiornamento e di vero e proprio completamento fu da lui affidato, poco prima di morire, a uno dei suoi allievi più fedeli e anche più "congeniali", Giovanni Fornero, che ha quasi raddoppiato il volume del libro, il quale si presenta ora come una delle più complete opere di riferimento per lo studio di questa "inutile" disciplina, oltre che come una lettura per molti aspetti appassionante. Per capire lo spirito dell'opera, e anche per confermarci nell'idea che studiarla sia un affare non solo di curiosità o di "informazione", ma qualcosa di più e di più significativo per sviluppare la comprensione di noi stessi e il senso stesso dell'esistenza, è utile rileggere l’introduzione che Abbagnano aveva premesso al primo volume dell'opera nel 1946. Una data dalla quale fortunatamente siamo lontani, ma che per tanti aspetti non manca di analogie con la situazione attuale (soprattutto se, senza alcun pessimismo preconcetto, guardiamo al futuro che ci aspetta e che sembra destinato ad essere un periodo abbastanza oscuro, una sorta di medioevo, dove forse dovremo sopravvivere solo mantenendo vive le grandi idee e opere del passato). Allora era appena finita la seconda guerra mondiale, un periodo che, soprattutto da ultimo, Torino aveva vissuto in mezzo a difficoltà enormi (bombardamenti, repressione tedesca, fame), ma anche con i momenti esaltanti della Resistenza antifascista. Abbagnano non era stato immune, negli anni del fascismo trionfante, da qual-che cedimento all'ideologia del regime. Anche se alcuni dei suoi allievi, e più tardi colleghi, migliori, a cominciare da Luigi Pareyson e Pietro Chiodi, avevano militato nelle file partigiane. Lui stesso non aveva certo creduto alle dottrine del fascismo, si era comportato "da signore" qual era; cioè come un uomo di cultura sostanzialmente scettico nei confronti della politica non sfuggendo al rischio di un certo "nicodemismo". Poiché la sua Storia della filosofia cominciò a uscire nel 1946, possiamo ben supporre che
nel periodo oscuro della dittatura e della guerra egli avesse deciso di rimanersene in compagnia dei suoi più antichi colleghi filosofi, dedicandosi al complesso lavoro, anche di filologia, che doveva preparare quell'opera. Intorno agli anni Quaranta, del resto, aveva anche scritto e pubblicato alcune delle opere che furono tra le prime dell'esistenzialismo italiano.
La Storia non volle essere, fin dall'inizio, solo un affare di ricostruzione "oggettiva" delle dottrine del passato. Abbagnano respingeva, nella introduzione del 1946, la divisione tra lavoro storico e lavoro teorico in filosofia - una divisione che invece si sarebbe accentuata negli anni successivi, fino a certi stremi di oggi in cui gli "storici della filosofia" si credono gli unici studiosi seri di questa disciplina (perché dicono cose documentate, frutto di ricerche di cui si può controllare la validità) e considerano i "teoretici" poco più che dei tuttologi buoni solo per giornali e TV. Abbagnano non si illudeva che fare teoria filosofica fosse un puro affare di riflessione sulle esperienze vissute; bisognava invece proprio prendere in considerazione il pensiero del passato, per trovarvi esempi, ispirazione, un vocabolario carico di significati, dei veri e propri "segnavia". Non però dando ragione a Hegel e all'idealismo, per i quali la storiografia filosofica coincideva con la ricostruzione genealogica di una catena destinata a condurre, appunto, alla filosofia di Hegel stesso, che conservava e "superava" tutto il meglio che si era pensato nel passato. Ma nemmeno pensando che le dottrine di vari pensatori dei secoli trascorsi fossero un coacervo senza capo né coda, un ammasso di opinioni del tutto arbitrarie e spesso decisamente folli. Abbagnano si proponeva di evitare questi due estremi (il primo dei quali predominante nella filosofia neoidealistica italiana, ma poco più tardi anche nel marxi-smo) considerando le filosofie come espressione spirituale di persone in carne ed ossa, che avevano costruito sistemi o complessi di dottrine a partire da un problema centrale che doveva guidare anche lo storico nello sforzo di comprenderli. La storia della filosofia, diceva Abbagnano, è profondamente diversa dalla storia della scienza; in quest'ultima, le ipotesi falsificate si gettano via, conservando solo i risultati positivi; nella filosofia non c'è mai è qualcosa di totalmente superato, proprio perché ogni filosofia è espressione di una persona e non tappa di uno sviluppo conoscitivo diretto verso una qualche verità ultima e definitiva. “Noi non possiamo raggiungere, senza l'aiuto che ci viene dai filosofi del passato, la soluzione dei problemi dai quali dipende la nostra esistenza singola ed associata. Noi dobbiamo perciò proporre storicamente tali problemi; e nel tentativo di intendere la parola di Platone o di Aristotele, di Agostino o di Kant e di quanti altri, piccoli o grandi, abbiano saputo esprimere un'esperienza umana fondamentale, dobbiamo vedere il tentativo stesso di mettere in chiaro e portare alla soluzione i problemi nostri”. Così scriveva Abbagnano, e portava anche come esempio di questo atteggiamento quello di Platone nei confronti di Socrate: aveva passato la vita a cercare di spiegare la filosofia socratica, ma così facendo - come accade negli interpreti autentici, e come sempre più capisce l'ermeneutica di oggi - aveva creato il proprio originale sistema. Naturalmente, si può anche pensare che non siamo tutti, come Platone verso Socrate; cioè che non dobbiamo per forza crearci un nostro sistema. Ma possiamo davvero pensare ancora così, nel mondo che Nietzsche chiamava del nichilismo compiuto, dove non c'è più "UNA verità" - che del resto è sempre stata quella del potere e dei dominatori ? In questo mondo, appunto il nostro, della comunicazione generalizzata, della globalizzazione, del pluralismo delle culture, chi non diventa un "oltre uomo" (il superuomo di Nietzsche), e cioè non reinterpreta originalmente le parole del passato, è perduto, non esiste più come un singolo. Da questo, ci rendiamo sempre più conto, dipende anche, forse principalmente, la qualità della nostra vita, fin nei suoi aspetti più quotidiani. Anche solo per questa ragione, di semplice salute mentale, vale la pena di provare a mettersi alla scuola della Storia di Abbagnano.
GIANNI VATTIMO
In: “L’Espresso”, n. 51, 27 Dicembre 2005, pp. 122-124