STERPA E.

Il liberalismo moderno di Nicola Abbagnano

in " Nuova Antologia", Ottobre- Dicembre 2003, pp. 235-256 - 2003

Il liberalismo moderno di Nicola Abbagnano

 

Il liberalismo moderno di Nicola Abbagnano

 

Conobbi Nicola Abbagnano nel 1974, alla prima riunione della Societá dei redattori de «Il Giornale», di cui entrambi facevamo parte, lui grande intellettuale, certamente il filosofo italiano contemporaneo piú importante, io giornalista con un buon curricolo professionale, «chiamati in servizio» da Indro Montanelli, che nella direzione era affiancato da Enzo Bettiza, Gianni Granzotto, Cesare Zappulli, Gian Galeazzo, Biazzi Vergani.
«Il Giornale» nacque con una scissione dal «Corriere della Sera», allora diretto da Piero Ottone, editori e proprietari Giulia Maria Crespi, Mariolino Crespi, Tonino Leonardi. In realtá era la «zarina» - cosí era soprannominata la Giulia Maria - ad assumere l'iniziativa gestionale con piglio padronale.
Vittime in un certo senso del protagonismo della «zarina» furono Giovanni Spadolini, costretto a lasciare la direzione nel 1972 (gli successe Piero Ottone), e poi Montanelli che si trovava fortemente a disagio nel suo vecchio «Corriere» in quegli anni agitati da contestazione studentesca e moti di piazza con gravi episodi di violenza, prodromi del terrorismo che poi ne venne.
A disagio erano non pochi altri redattori e collaboratori del «Corriere», molti dei quali vollero seguire Indro quando fondó «I1 Giornale». Bastino due soli nomi, ch'erano, si puó dire, nella storia del «Corriere»: Egisto Corradi e Mario Cervi.
Al fianco di Montanelli accorse un gruppo di intellettuali che del «Giornale» fecero una sorta di «fortezza Bastiani» della cultura e dell'anticonformismo. Tra i nomi piú noti: Nicola Abbagnano, Guido Piovene, Rosario Romeo, Sergio Ricossa, Carlo Ludovico Ragghianti, Nicola Matteucci, Vittorio Mathieu, Geno Pampaloni, Carlo Laurenzi, Vittorio Dan Segre, una bella fetta insomma dell'intelligenza italiana che con quella scelta - come scrisse poi Enzo Bettiza nel suo Ombre rosse - si dichiararono "renitenti" alla "leva comunista" di quegli anni inquieti.
Prova delle preoccupazioni di tanti intellettuali per quanto andava accadendo in Italia fu il trasferimento negli Stati Uniti del più prestigioso dei politologi italiani, Giovanni Sartori, che lasciò il "Cesare Alfieri" di Firenze per trasferirsi all'Università californiana di Stanford, dove ebbi occasione di incontrarlo mentre ancora era intento a sistemare la sua nuova casa sulla sierra sopra San Francisco.
Il fiore all'occhiello del "Giornale" montanelliano fu senza dubbio Abbagnano, che schierandosi con gli scissionisti del "Corriere" si procurò l'ostilità di molti intellettuali, suoi colleghi o amici, "organici" alla sinistra.
Senza accenti retorici, com'era suo costume e stile, così Abbagnano motivò la sua decisione: “Non volli mancare all’avventura di libertà insieme con Montanelli”.
Si stabilì subito tra noi un rapporto cordialissimo. Da anni, quando ancora non lo conoscevo, il suo pensiero mi affascinava: lui viveva e insegnava a Torino, io vivevo tra Roma e Milano, giravo il mondo come inviato del “Corriere”.
La sua Storia della filosofia aveva accompagnato la mia preparazione culturale. Quando Montanelli mi spinse, insieme con Bettiza e Zappulli, a impegnarmi in politica nelle file liberali (“Bisogna portarci dentro la lotta politica – ci disse Indro – per difendere le nostre idee: non è tempo di un giornalismo neutro e indifferente, può essere vile starsene a guardare”) lo ebbi spesso come punto di riferimento ideale. I suoi scritti sul “Giornale” mi incoraggiarono sempre a sostenere tesi politiche anticonformiste anche all’interno del Partito liberale.
Con alcuni amici liberali diedi vita all’Associazione per il Rinnovamento Democratico e Liberale e nel marzo 1985 promossi un seminario di studi per i giovani, che si tenne a Spoleto. Ne nacque un Manifesto liberale, che fu firmato per primo da Abbagnano.
Qualche tempo prima avevo condotto con me a incontrarlo nella sua casa milanese di Via Morosini due giovani che collaboravano ad un periodico, “Il Nuovo”, che io dirigevo. Ne venne una bellissima intervista, che fu pubblicata col titolo Marx è morto, le libertà sono vive. Di quell’incontro voglio ricordare una battuta, in cui c’è tutta la freschezza della personalità di Abbagnano. Alla domanda: “ Quale messaggio lancerebbe a un giovane che affronta la vita?”, egli rispose: “Dire sempre la verità, sia nella sfera individuale, sia in quella sociale. Senza illusioni, ma con sincero atteggiamento di ricerca».
C'é in quella risposta i1 filosofo ricercatore della veritá, qual é sempre stato, lo studioso che non si atteggiava né a profeta né ad ideologo, che diceva: «L'uomo non ha bisogno di un credo dottrinario, ma di regole di comportamento».
La vita, il pensiero, tutta la ricerca critica di Abbagnano sono contraddistinti da una originalitá assoluta, senza tributi o appiattimenti, costantemente teso alla ricerca della veritá attraverso il rigore degli studi. «Ho sempre seguito la mia strada con coerenza, e questo mi basta», mi disse durante una nostra conversazione. Il suo curricolo lo dimostra: sempre lontano da mode ed egemonie.
«Il filosofo - ecco un'altra esemplare sua affermazione - non é uno che insegna la veritá, come pretendeva Hegel. I1 vero filosofo é quello dell'antica Grecia, quello dei dialoghi di Platone, un uomo cioé che si pone interrogativi e cerca di dare una risposta ai grandi perché della vita».
Non nascondo che quando negli anni Ottanta (1984) azzardai a prospettargli l'ipotesi di un suo impegno politico accettando di capeggiare la lista liberale di Milano, ebbi un attimo di pudore. Lo desideravo forte mente, ma altrettanto fortemente sentivo di invadere una sfera assai intima di un grande pensatore, e provavo dunque imbarazzo. La sua decisione, presa dopo qualche giorno di riflessione (ne parlai con Montanelli, che mi aiutó molto nella mia rispettosissima missione di persuasione), mi riempí di gioia. I1 rapporto che si stabilí con Abbagnano volle dire la irrinunciabilitá di una osmosi tra momento culturale e momento politico, la necessitá imprescindibile di riempire l'azione politica di contenuti e significati culturali. Io e gli amici liberali fummo orgogliosi di questo legame con un filosofo assertore di alti ideali di libertá.
Personalmente ho sempre considerato questo il modo piú corretto di intendere e praticare i rapporti tra politica e cultura. Non é certo liberale la strumentalizzazione della cultura a fini meramente politici, tanto meno partitici.
Il concetto gramsciano di «intellettuale organico», ovvero di intellettuale che esercita il proprio ruolo in funzione di una prospettiva politica, é nettamente contraddittorio con il concetto di libertá della cultura che caratterizza il pensiero liberale.
Nella cultura stanno i valori di fondo sui quali si regge un corpo sociale, ad essi dunque vanno di conseguenza subordinate le scelte istituzionali, economiche e politiche in generale.
Mi sia permessa qui una considerazione che riguarda la storia italiana della seconda metá del Novecento: ci fu senza dubbio da parte dei partiti democratici una certa disattenzione per il rapporto tra politica e cultura, e questo forní spazio al disegno marxista di egemonizzazione dei mondo intellettuale, fino a far apparire la sinistra estrema come unica mallevadrice e garante dei valori culturali.
La scelta politica di Abbagnano ebbe tra l'altro il significato di una riscossa della cultura liberale. Come tale la vivemmo in quegli anni, io e i miei amici liberali.


Stanno in questa lunga premessa i motivi che mi hanno spinto a scri-vere questo saggio su Abbagnano e la sua filosofia. Ad Abbagnano debbo un grande tributo morale.
Nelle pagine che seguono cercheró di ricostruirne l'itinerario intellettuale e di avvicinarmi al suo pensiero con la discrezione, il rispetto e la semplicitá del non iniziato.
Sono un giornalista, non un cultore di gnoseologia. Sono peró persona che vuole capire per potere a sua volta spiegare e far capire, cosa che considero uno del compiti propri e piú nobili del giornalismo.
É una ricerca, la mia, che vuol essere innanzi tutto l'omaggio ad un grande pensatore liberale del Novecento, che negli ultimi anni della sua esistenza mi onoró generosamente di amicizia e stima. Quel nostro rapporto é uno dei momenti piú gratificanti, piú belli della mia avventura intellettuale e politica.


Nicola Abbagnano nacque a Salerno il 15 luglio del 1901. In una intervista apparsa su «Gente» nel 1982 a firma Giuseppe Grieco egli racconta: «Tutti i miei parenti erano medici, commercianti, avvocati, ingegneri. Ció che li univa era una cultura umanistico-letteraria che in essi era diventata stile di vita. Questa cultura li faceva essere di sentimenti genericamente liberali. Il mio nonno paterno, dal quale ho ereditato il nome Nicola, dopo i moti del 1821 fu costretto a nascondersi tra le montagne del Cilento per sfuggire ai soldati borbonici che gli davano la caccia».
Il padre, Ulisse, avvocato civilista, era un seguace di Giovanni Amendola, anche lui salernitano com'é noto. Fu per alcuni anni, dal 1914 al 1920, consigliere comunale di Salerno, che gli dedicó una via. Lasció due saggi: Diritto civile. Il patto di riscatto rispetto ai terzi e Appunti giuridici.
La madre, Amelia Bernabó, cosí egli la ricorda nell'intervista a «Gente»: «Aveva il suo regno nella famiglia: educata in un collegio di suore francesi, considerava la cultura una specie di ornamento che le permetteva di vivere meglio la doppia parte di sposa e madre».
Frequentó il liceo classico Torquato Tasso di Salerno. A 17 anni si iscrisse all' Universitá di Napoli, alla Facoltá di lettere e filosofia, dove ebbe maestro Antonio Aliotta, unica voce che allora faceva da contro-canto all'egemonia crociana.
La vicenda intellettuale di Abbagnano ebbe esordi - era appena finita la Prima guerra mondiale - in un mondo accademico dominato da due principali indirizzi filosofici: il neohegelismo di Croce e Spaventa e l'evoluzionismo dell'americano William James e del francese Henri Bergson.
Seguí le lezioni di Aurelio Covotti, Filippo Masci, Guido Della Valle, oltre che di Aliotta, firme prestigiose dell'ateneo napoletano, che ebbero su di lui forte suggestione ma non ne condizionarono l'evoluzione. Il giovane Abbagnano era uno spirito assai indipendente.
Studió i filosofi Husserl, Kierkegaard, Heidegger. Sollecitato da Aliotta scoprí l'idealismo pessimistico anglosassone (pubblicó nel 1927 Il nuovo idealismo inglese e americano) e lo strumentalismo americano.
Nella giá citata intervista a «Gente» egli ricorda che all'Universitá volle dare due esami di greco, che erano facoltativi, ma che scelse «per non perdere il filo diretto con i grandi filosofi dell'antichitá. Platone soprattutto». Nelle sue ricerche volle andare alle radici della filosofia: studió a fondo Platone, Aristotele e Socrate. Proseguendo la sua ricerca ebbe Kant come punto di riferimento e studió i moderni Montagne, Perry, Spaulding, Santayana.
I1 periodo napoletano, dal 1918 al 1936 - al quale un giovane ricercatore dell'Universitá partenopea Federico II, Silvio Paolini Merlo, ha dedicato Abbagnano a Napoli, un saggio che analizza con rigore la formazione del pensiero del maestro -, fu per il filosofo studio e ricerca: «Ogni momento libero - dirá a Marcello Staglieno, che curó il bellissimo volume Ricordi di un filosofo nel 1990 - io lo trascorrevo leggendo o scrivendo, spesso fino alle luci dell'alba».
Si laureó nel 1922. La sua tesi di laurea, in contraddizione persino col suo maestro Aliotta, é la sua prima opera pubblicata nel 1923 col titolo Le sorgenti irrazionali del pensiero, con prefazione dello stesso Aliotta, che aveva avvertito lo spessore intellettuale dell'allievo, tanto da invitarlo a collaborare, ancora prima della laurea, alla prestigiosa rivista internazionale «Logos», sulla quale tra gli altri scriveva Husserl.
Giá in Sorgenti c'é il nocciolo del pensiero di Abbagnano. Giuseppe Semerari rileva che giá lí il neo-filosofo si pone il problema «di liberare il lavoro filosofico da ogni neutralitá o preteso obiettivismo per appassionarlo al dramma dell'esistenza».
Annota Silvio Paolini Merlo in Abbagnano a Napoli: «É perció indubbio che Le sorgenti irrazionali del pensiero sia un primo importantissimo atto d'accusa sferrato al neoidealismo italiano, tuttavia esso é ben piú di questo. Salvo un cenno rapidissimo e abbastanza occasionale alla Logica, Abbagnano non dedica al pensiero crociano neppure una pagina, mentre si sofferma accuratamente con lo scritto sull'arte [... ] Non troviamo Croce, dunque, ma al suo posto le lunghe disamine su Kant [... ] Particolarmente istruttive, al fine di un chiarimento del simbolismo logico ed estetico del primo Abbagnano, sono le obiezioni rivolte allo sperimentalismo radicale di Aliotta e all'intuizionismo bergsoniano».
Disse Aliotta delle idee di Abbagnano: «La sua tesi é un po' diversa dalla mia, e questa indipendenza di critica e di giudizio fa onore a lui e a me, che non amo essere un allevatore di pappagalli».
In Sorgenti ci sono giá le basi della sua filosofia dell'esistenza. Al centro della sua riflessione filosofica egli mette sempre il rapporto tra pensiero e vita. Ancora prima di immettere nella sua terminologia la parola esistenzialismo, il suo pensiero guardava alla esistenza, alla fattualitá, agli individui.
Dirá piú tardi: «Sono sempre stato alla ricerca di una filosofia che te-nesse conto della nostra finitudine, per cui l'uomo nasce, ama, gioisce, lotta, soffre e muore, ma senza cadere nel nichilismo e nel relativismo».
La sua filosofia, fin dall'inizio, é stata una attivitá spirituale autonoma diretta ad interpretare e definire i modi del conoscere e dell'agire umano nell'ámbito del divenire storico. A domanda, disse una volta: «Per me la filosofia é metodologia dell'esistenza, cioé riflessione globale sulla vita e i modi o le tecniche atte ad orientarla».
Ci sono subito modernitá ed innovazione nel pensiero di Abbagnano. É tra i primi a stabilire rapporti con 1a scienza, al contrario degli idealisti.
Anche in questo senso negli anni Trenta fu un isolato. Osserva Carlo Augusto Viano che giá da giovane Abbagnano voleva «elaborare un'interpretazione aggiornata della scienza, che consentisse alla filosofia di stabilire buoni rapporti con essa».
E’ una interpretazione modernissima della scienza. Moderna lo era e come negli anni Trenta. Se filosofia é ricerca della saggezza - e nessuno fu piú di Abbagnano ricercatore della saggezza -, non c'é alcun dubbio che nell'uomo é saggezza la conoscenza dell'uso da fare del proprio sapere.
Considerava cosí importante questo rapporto con la scienza che dedicó nel 1929 un saggio a Emíle Meyerson, il filosofo francese di origine polacca, studioso dei fondamenti della scienza: La filosofia di Emile Meyerson e la logica dell'identitá, che é giá il suo quarto volume dopo Le sorgenti (1923), Il problema dell'arte (1926), Il nuovo idealismo inglese e americano (1927).
Con questo tipo di ricerca egli avvió una dinamica nuova per il pensiero filosofico italiano, che allora era piuttosto acriticamente ancorato ad una sorta di egemonia idealistica.
Non erano molti in quegli anni i pensatori e i centri di ricerca che sfuggivano alla cultura idealistica e che si aprivano al confronto con le correnti del pensiero europeo e americano. Vanno citati Annibale Pasto re e Carlo Mazzantini a Torino, Piero Martinetti e Antonio Banfi a Milano, Antonio Aliotta a Napoli.
Dopo la laurea insegnó storia e filosofia al liceo Tasso di Salerno, allo Spedalieri di Catania, all'Umberto I di Napoli, poi al Magistero femminile napoletano Suor Orsola Benincasa. Egli ricorda che in quest'ultimo istituto privato, di grande prestigio peraltro, «l'anno scolastico veniva inaugurato con una cerimonia alla quale partecipava quasi sempre la principessa Maria José, spesso accompagnata dal principe Umberto. Quel giorno i professori dovevano indossare il tight ed essere inappuntabili in tutto». A dirigere il Suor Orsola era la principessa Adelaide Strongoli Pignatelli, giá dama di corte della regina Margherita, che a causa di una menomazione si spostava in carrozzella e «vestiva perennemente di nero, i capelli raccolti in una crocchia alta sul capo, aveva un vivo senso del decoro». «In quell'antico convento ch'era appartenuto a monache - racconta sempre il filosofo -, la principessa pretendeva giustamente, per gli inse-gnanti, il solino duro e la cravatta, abiti fumo di Londra. Né ammetteva il minimo cenno di confidenza tra professori ed allieve, che nascondevano la loro bellezza in severe ed ampie uniformi [...] Quando venni chiamato e mi presentai a lei, mi squadró con approvazione, dopo essersi messa un minuscolo paio d'occhiali rotondi. Fanatica del latino quanto lo ero io del greco [...] andammo sempre d'accordo».
Il giovane Abbagnano puntava ovviamente ad una cattedra universitaria. Per arricchire il suo curricolo pubblicó nel 1926 Il problema dell'arte, «un libro - dichiaró a Staglieno in Ricordi - a cui tengo molto». Gli serví tra l'altro per il concorso alla cattedra universitaria nel 1927: «Ero arrivato secondo, ma non fui chiamato benché a Genova ci fosse una cattedra vuota».
A ventitré anni sposó Rosa Del Re, compagna di Universitá, figlia del docente di matematica Alfonso, dalla quale ebbe due figli. Non fu un matrimonio felice, dice, «senza colpa di nessuno [... ] i rapporti non ressero all’usura del tempo: prima che lei morisse, erano già terminati”.
Fu negli anni partenopei che scoprí Kierkegaard: «Risento lo stupore e la gioia della scoperta - confiderá -, quando, ignorando la lingua danese, potei accedere a Sóren Kierkegaard nelle non rare traduzioni tedesche. Provavo la sensazione, leggendolo, d'inseguirlo nelle sue evoluzioni giovanili attorno alle gonne di Regina Olsen, nella Vita estetica di sfortunato seduttore che lo spinse a piú etiche meditazioni, sino a Timore e tremore».
Kierkegaard, precursore dell'esistenzialismo, si pose in opposizione al panlogismo hegeliano, affermando l'irriducibilitá dell'esistenza individuale `all'armonia dei sistemi razionalistici.
Studió a fondo Heidegger e Jaspers: «Nel 1928 impiegai mesi, dizionari alla mano, per lo studio del Sein un Zeit (Essere e tempo) di Heidegger, originale ma difficoltoso maestro, tra i massimi pensatori del secolo».
Heidegger, ch'era stato assistente di Husserl, se ne distaccó con la pubblicazione di Sein und Zeit, testo fondamentale dell'esistenzialismo. Altro filosofo tedesco che lo interessó fu Jaspers, di cui Heidegger fu discepolo. Abbagnano ritrovó in Jaspers parte dei princípi che aveva espresso nel suo Sorgenti. Jaspers «era piú legato a Kierkegaard» - dice - e c'era in lui «una forte valenza etica, che lo tenne lontano dal nazismo (al contrario di Heidegger, che vi aderí ma brevemente) e che pure, nel celebre saggio Le colpe della Germania (1946) gli consentí di difendere coraggiosamente il proprio Paese».
Qui Abbagnano, sempre nei Ricordi, fa un riconoscimento a Croce, dal quale pure si tenne sempre distante: «Mi viene di pensare che lo stesso Croce - non conformista nel 1915 nel difendere sia il neutralismo italiano sia la Kultur del Reich guglielmino - scrisse parole altrettanto alte nell'immediato dopoguerra per la patria nostra prostrata. Ma quant'era, per il resto, cieco, allora, negli anni Venti: dalla reggia napoletana il suo verbo neo-idealista non ammetteva la benché minima eterodossia. In nome dell'astrazione, negava anche la scienza». A questo proposito Abbagnano confida che fin da ragazzo aveva subíto il fascino della scienza. Aveva letto il Protagora di Platone, dove Socrate interloquisce affermando l'importanza della scienza. «Sí - dice -, Socrate m'aveva aiutato a capire quanto importante fosse la scienza».

La sua filosofia tendeva ad «umanizzare la tecnica», al contrario di taluni esistenzialisti, per esempio Heidegger, che tendevano invece a squalificarla, quasi a demonizzarla. «La tecnica - sosteneva - stabilisce un legame di solidarietá effettiva tra gli uomini del lavoro [...] I pericoli oggi derivanti - dirá in epoca piú recente - dalla scienza e dalla tecnica (dalla bomba atomica alla meccanizzazione dell'uomo) non si combattono con prediche, profezie e miti, ma solo trovando e mettendo a prova altre tecniche: tecniche di convi-venza umana, che gli antichi chiamavano saggezza e la cui ricerca é sempre stata il compito della filosofia».
Eccola una dimostrazione della modernitá di Abbagnano. Gianni Vattimo, filosofo legato alla sinistra e non certo vicino al pensiero abbagnaniano, in uno scritto su «La Stampa» di Torino del 30 settembre 2001, ammette che Abbagnano col suo nuovo illuminismo ci ha «preparato alla modernitá».
Un'opera di grande spessore storico, che durante il periodo napoletano gli costó cinque anni di lavoro - quattro per le ricerche, uno per scriverla - é Guglielmo d'Ockham, che uscí nel 1931 per i tipi di Carabba, il celebre editore di Lanciano. Teologo inglese del Trecento, il francescano Ockham - egli mi disse durante uno dei nostri incontri milanesi - «é stato la prima grande figura dell'etá moderna»: propugnó la separazione tra Chiesa e potere politico e sostenne che mentre le nozioni generali hanno un puro valore logico, reali sono solo gli esseri individuali. Altra grande sollecitazione per il giovane filosofo che andava maturando a Napoli.
Conosceva francese, inglese, tedesco, il che gli permise di leggere e consultare direttamente testi di filosofia ancora non tradotti. Lesse Schopenhauer, Nietzsche, Weber, Bergson, Blondel, Royce, Peirce, Sterling, Wallace. Pubblicó saggi su questi due ultimi e su Taylor e Mac Taggart.
Finalmente nel 1935 vinse il concorso universitario e scelse la cattedra di storia e filosofia al Magistero di Torino, dove insegnó tre anni, dal 1936, per poi passare alla facoltá di lettere nel 1939.
Va annotato che nel 1933-1934 era riuscito primo in una terna, ma il concorso venne annullato dall'allora ministro dell'istruzione De Vecchi di Val Cismon, «forse per compiacere - dice Abbagnano - quache gentiliano».
A Torino - racconta - «austera per gli influssi di Giansenio, mi trovai benissimo [...] Mi piacque anche il mondo degli studi, assai piú animato e cosmopolita». Nella cittá di Gobetti divenne amico del pittore Felice Casorati, di Cesare Pavese (lo andava a trovare nella sede della casa editrice Einaudi, ne riceveva «confidenze sui suoi tormenti»), ebbe Fernanda Pivano come allieva e assistente. Della Pivano era innamorato Pavese, ma fu oggetto di pettegolezzi per la sua vicinanza al maestro.
In una recente intervista («Repubblica», 21 settembre 2003) la celebre americanista ha ricordato il periodo in cui fu vicina al filosofo. Racconta: «Conobbi Nicola Abbagnano. Sa, ero molto carina e a lui piacevano le ragazze belline». L'intervistatore, Antonio Gnoli, le chiede: «Le fece la corte?» «La faceva a tutte. E davvero non era un problema per me la corte di un signore per bene. A me la cosa che affascinava era quel suo modo di discutere di esistenzialismo [...] Ricordo che definí Sartre un ballerino della filosofia e spesso mi diceva: ‘Legga Jaspers, lí troverá la veritá che cerca’. I1 fascino di Abbagnano secondo me risiedeva nel fatto che il suo esistenzialismo ti dava una speranza».
Sempre la Pívano, durante un convegno a Torino alla fine del Novecento dichiaró che la frequentazione di Abbagnano fu molto importante per lei, aggiungendo che la faceva «lavorare come una pazza», precisando che si davano del voi.
Alle sue lezioni assistettero, fra gli altri, Umberto Eco e Franco Tató, com'é stato ricordato al convegno torinese per il centenario della nascita nel 2001. Gli furono amici ed estimatori Ludovico Geymonat, Norberto Bobbio, Aldo Visalberghi, Gianni Vattimo, per citare i nomi piú noti, ma anche tanti altri accademici e intellettuali.
Quello di Torino era una ambiente culturale assai diverso da quello napoletano. La filosofia nell'ateneo torinese non subiva l'egemonia idealista. Quando arrivó a Torino Abbagnano aveva 36 anni. Fece vita da scapolo. Prese in affitto un appartamento in via Amedeo Peyron.
Il pittore Casorati, di cui é celebre il ritratto che fece a Gobetti, lo invitava spesso a casa sua, dove tra gli altri c'erano gli scrittori Cesare Pavese e Francesco Pastonchi, «e anche bellissime signore», com'egli racconta a Staglieno.
Era un bell'uomo, raffinato, elegante, affabile. «Aveva - mi ha detto un amico torinese - un piglio anglosassone», il suo modo d'essere filosofo affascinava, «gli piaceva vivere gli eventi del suo tempo».
Umberto Eco ha raccontato che quando egli si iscrisse all'Universitá di Torino, gli dissero che l'esistenzialista Abbagnano si riuniva «al sabato con i suoi studenti» e «ballavano il fox-trot sui Concerti brandeburghesi». Addirittura. La sua ricercatezza alimentava leggende metropolitane. Il fatto é che l'esistenzialismo - erano i primi anni del dopoguerra - allora faceva pensare, oltre che a Sartre, a Juliette Greco nelle caves di Saint-Germain-des-Prés e ai suoi fans in maglia nera. In realtá Abbagnano era tutt'altro: un signore con «un'impronta quasi calvinista», com'egli stesso si autodefinisce. Severa era del resto la sua filosofia, fatta di moderazione, autocontrollo, appello alla ragione.
La sua vita da scapolo sotto la Mole duró fino al 1946, quando sposó l'americana Marian Taylor, «una donna bella e intelligente» conosciuta in casa di amici a Bellagio, sul lago di Como. La Taylor, ch'era giá stata sposata e divorziata, aveva fondato una piccola casa editrice, che pubblicó molti libri della corrente filosofica di Abbagnano. Morí nel 1970.
Nel 1939 pubblicó con Paravia La struttura dell'esistenza, un'opera considerata i1 «manifesto» dell'esistenzialismo positivo, «frutto - é 1a sua testimonianza - d'un quindicennio di meditazioni e studi». É certamente l'opera che fece di Abbagnano uno dei grandi interpreti della crisi del neo-idealismo italiano. Come ha avuto occasione di dire Norberto Bobbio, gli anni Trenta - e il libro di Abbagnano lo documentó - furono «gli anni decisivi per la crisi dell'idealismo e la nascita di nuovi fermenti che avrebbero poi alimentato le principali correnti del dopoguerra». Bobbio, nel 1956, cosí si espresse su La struttura dell'esistenza: «Tra le opere di rottura fu certamente la piú sconvolgente. Non assomigliava a nessuna delle opere filosofiche che si erano andate scrivendo in quegli anni, anche nella forma, che era scabra, lineare, senza i soliti impeti oratori e le solite virtuositá dialettiche. Non era un libro facile, ma proprio perché era scritto con rigore, guidato e sorretto da una rara disciplina mentale, si lasciava capire». «Fu una sorpresa, - aggiunge Bobbio -, forse la piú grossa sorpresa di quegli anni. Ricordo benissimo che a me e a tanti altri apparve allora come un meteorite caduto dal ciclo. Per quanto si fosse cominciato a par lare da qualche anno di esistenzialismo, nessuno era preparato a trovarsi di fronte a un filosofo esistenzialista italiano, tanto meno ad una versione italiana, giá compiuta e perfetta, dell'esistenzialismo». La parola esistenzialismo entró nel vocabolario europeo dopo 1a pubblicazione di Sein und Zeit (1927) di Heidegger. Abbagnano, peró, con la sua filosofia s'era giá posto in Italia agli antipodi dell'hegelismo com'é noto, e perció esistenzialista in senso positivo, come lui stesso dirá, lo era naturaliter.
Nei Ricordi il filosofo chiarisce che cosa egli intenda per esistenzialismo. Eccone la testimonianza: «Fin dall'inizio dei miei studi, ero alla ricerca di una filosofia ‘totale’ (ma non certo totalizzante) che fosse in grado di rispondere a tutti i bisogni e alle inquietudini dell'uomo contemporaneo e che soddisfacesse le esigenze sia dell'individuo sia della collettivitá, della libertá singola nell'ambito di una societá modernamente organizzata e sempre piú caratterizzata dalle scoperte scientifiche, sempre nel rispetto del pluralismo culturale della cosiddetta civiltá d'Occidente, nella sua varia ma definita unitá». «Sono sempre stato - continua - alla ricerca di una filosofia che te-nesse conto della nostra finitudine, senza cadere nel nichilismo o nel relativismo». Questi due passaggi spiegano mirabilmente il pensiero filosofico di Abbagnano. Non ci sarebbe bisogno di aggiungere altro, per interpretare il pensiero abbagnaniano, ma ritengo sia doveroso che chi cerca di ricostruire la vicenda intellettuale di un grande filosofo provi a penetrarne í1 più compiutamente idee e convinzioni.
Andiamo a leggere la voce Esistenzialismo nel monumentale Dizionario di filosofia dello stesso Abbagnano. L'Esistenzialismo - egli dice - é «in polemica con tutte le forme, positivistiche o idealistiche, del Romanticismo ottocentesco. I1 Romanticismo afferma che nell'uomo agisce una forza infinita (Umanitá, Ragione, Assoluto, Spirito, ecc.) di cui egli é solo una manifestazione. L'Esistenzialismo afferma che l'uomo é una realtá finita, che esiste e opera a suo rischio e pericolo. I1 Romanticismo afferma che il mondo in cui l'uomo si trova, come manifestazione stessa della forza infinita che agisce nell'uomo, ha un ordine che garantisce ne-cessariamente la riuscita finale delle azioni umane. L'Esistenzialismo afferma che l'uomo é ‘gettato nel mondo’, cioé abbandonato al determinismo di esso, che puó rendere vane e impossibili le sue iniziative».
Abbagnano si diffonde a lungo sull'antitesi Romanticismo-Esistenzialismo, per poi riassumere magistralmente 1e posizioni di Kierkegaard, Heidegger, Jaspers, Sartre.
Dell'esistenzialismo di Sartre da decisamente un giudizio negativo. Com'é noto la filosofia di Sartre sta essenzialmente nell'opera Etre et néant (L'essere e il nulla) , che sviluppa un «esistenzialismo ateo». L'uomo é definito da Sartre come «l'essere che progetta di essere Dio». «Ma - annota Abbagnano - si tratta di un Dio mancato». Sicché - annota ancora - la progettazione sartriana si risolve «in ogni caso in uno scacco». Conclude duramente che nella dottrina di Sartre esistono «un'infinitá di possibilitá che si eliminano e di distruggono a vicenda in un gioco futile e vano che dá la nausea». Ed ecco, appunto, l'esistenzialismo sartriano come «filosofia negativa» o «filosofia dell'angoscia». É da lí - spiega Abbagnano - che il termine esistenzialismo viene «adoperato a designare non solo certi indirizzi letterari ed artistici, ma anche costumi, atteggiamenti, e persino fogge del vestire».
L'esistenzialismo francese fu una moda, un fenomeno passeggero. Abbagnano non ne fu neppure sfiorato, anche se, come gli capitó di dire, non mancassero anche in Italia «alcune scimmie di Sartre».Dell'esistenzialismo sartriano non apprezzava né il merito né il lin-guaggio, che considerava inaccettabili.
La filosofia esistenzialista abbagnaniana é qualcosa di molto piú serio. É «lo sforzo per raggiungere l'essere e per rimanere nell'essere. L'uomo nella sua finitezza cerca di continuo un appagamento, un completamento, cerca la stabilitá di cui é privo? Nella sua finitudine l'uomo cerca l'essere».
A queste conclusioni il filosofo arriva con ricerche approfondite e vaste (cita Popper per sottolineare il suo impegno nella speculazione: «la ricerca non ha mai fine»), e cerca sostegno in pensatori del passato (Socrate, Agostino, Pascal) e in scrittori (Dostoevskiy e Kafka, per esempio), nei quali rileva sensibilitá che gli sono vicine. Interessanti i riferimenti a Dostoevskiy e Kafka. Nelle «alte pagine dei Fratelli Karamazov - dice - l'uomo sceglie liberamente tra le possibilitá della propria vita, e le realizza con piena responsabilitá». Altrettanta vicinanza trova in Kafka: «Me n'ero reso conto anche calandomi negli allucinanti tormenti kafkiani, tra i ricorrenti temi dell'insicurezza della vita (Il Processo, Il Castello) e dell'insignificanza di una quotidianitá che addirittura annichilisce ogni carattere umano (Le metamorfosi)».
Entrano nella sua penetrante analisi speculativa «gli sconvolgimenti apportati dal primo conflitto mondiale (quando faceva queste considerazioni, nel 1939, si vivevano i prodromi del secondo conflitto mondiale n.d.r ) e la delusione nei confronti degli ideali e delle correnti culturali ottocenteschi».
Nell'esaminare gli elementi e le conseguenze di tale temperie storico - culturale, egli non manca di sottolineare la sua concezione liberale; «Dal mio punto dí vista, che avrei soprattutto precisato nei saggi Introduzione all'esistenzialismo (1942) ed Esistenzialismo positivo (1948) dirá a Staglieno - era fondamentale la libertá individuale, insieme alla consapevolezza che l'uomo - proprio in quanto calato altrettanto consapevolmente nella sua finitudine - puó sfuggire al nichilismo e a1 relativismo con l'aiuto dell'esperienza e della ragione».
Autenticamente e profondamente liberale Abbagnano lo fu sempre. Un personaggio che attiró la sua ammirazione fu Giovanni Amendola, «vero antagonista, lui e non Gramsci, lui e non Croce - egli dice - del nazio-nalmassímalismo, o socialfascismo, mussolmiano».
Di Croce, come giá s'é detto, non aveva grande considerazione come filosofo. E Croce, del resto, ignoró il giovane Abbagnano. Pare che don Benedetto abbia letto alcuni suoi saggi, «affidati peró, com'era suo costume - nota Abbagnano - alla blanda stroncatura di qualche discepolo (ne rammento una, sulla ‘Critica’, di Fausto Nicolini)».
Altra considerazione Abbagnano ebbe per Giovanni Gentile, di cui, sia pure con forti riserve, apprezzava l'attualismo, che pone, com'é noto, il principio assoluto del reale nello spirito inteso come atto puro, ossia atto del pensiero pensante. É sempre stata ferma in lui la convinzione che lo storicismo di Croce poteva essere accomunato al pensiero di mentre distingueva la posizione gentiliana. Considerava Croce sostanzialmente uno spirito estetico, riconoscendo, per esempio, che l'Estetica crociana (1902) fu la prima del Novecento a dare fondamento filosofico alla critica letteraria. Di Gentile diceva: «É piú oscuro forse di Croce, ma piú vivo». Piú volte, parlando di Gentile, egli citava Gobetti, che nel 1921 scrisse che la filosofia gentiliana aveva fatto salire la filosofia «dalle astruserie professionali all'immensa concretezza della vita».
A sua volta Gentile, quando la stella di Abbagnano cominció a brillare, negli anni Quaranta, mostró stima per il giovane filosofo esistenzia-lista. Durante un convegno organizzato a Pisa nel 1942, cosí si espresse confidenzialmente: «Qui il solo a capirmi é Abbagnano».
Fu proprio Gentile a dare l'assenso quando la direzione di «Primato», la rivista di Bottai, alla fine del 1942, decise di promuovere un dibattito sull'esistenzialismo. Il dibattito si aprí -nel gennaio 1943 con un primo scritto di Abbagnano. Fu in effetti un fatto insolito, che apparve quasi un segno di cambiamento. Era nota la propensione liberale di Abbagnano, ma Bottai, com'é noto, proteggeva i frondeurs. Al dibattito parteciparono Enzo Paci, Armando Carlini, Ugo Spirito, Francesco Olgiati, Augusto Guzzo, Pantaleo Carabellese, Camillo Pellizzi, Galvano della Volpe, Cesare Luporini, Antonio Banfi, studiosi di orientamenti diversi, che peró presero atto della filosofia dell'esistenza, pur criticandola alcuni. Alla fine intervenne anche Gentile. La chiusura fu lasciata ad Abbagnano, che a Gentile fece rilevare «le differenze sostanziali tra esistenzíalismo e attualismo-idealismo». Quest'intervento apparve su «Primato» il 15 marzo 1943. Mancava poco al 25 luglio.
Nel 1945, Abbagnano era ormai un intellettuale di prima fila, affermato e rispettato. Molti suoi colleghi universitari e amici si avvicinarono al marxismo. Non lui, da sempre liberale per convinzione e temperamento. Commenta nei Ricordi: «Di continuo riaffiora negli intellettuali il conformismo, antica tabe italiana che nell'ultimo quarantennio ha pro-vocato l'adesione massiccia (e interessata) della maggioranza degli in tellettuali italiani al marxismo (dopo l'adesione loro, altrettanto inte-ressata, al fascismo)».
Della sua convivenza col fascismo ha detto Visalberghi, antifascista: «I suoi rapporti con il fascismo furono come li ebbero un po' tutti quando ambivano ad incarico universitario». A farglí prendere la tessera fascista fu i1 padre, che pure era liberale amendoliano, preoccupato di non fargli perdere l'occasione di insediarsi in cattedra. É abbastanza noto, comunque, che per il suo cursus honorum non contrasse debiti con nessuno. Negli anni Trenta, va ancora ricordato, vinse un primo concorso ma se lo ritrovó annullato dall'allora ministro dell'istruzione De Vecchi di Val Cismon. Sempre Visalberghi annota: «Dopo il 1945 egli fu un fautore del pensiero liberale». Era noto a tutti. I1 suo esistenzialismo appariva chiaramente come l'invito a «calare l'idea di libertá dai cieli dello spirito nella problematicitá dell'esistenza individuale».
Nel 1941 - Torino subiva bombardamenti - si trasferí a Mondoví, da dove in treno due volte la settimana si recava a Torino. Non abbandonó mai l'Universitá, dove ebbe allievi che poi furono docenti importanti: Franco Ferrarotti, per esempio, per il quale fece creare la cattedra di sociologia a Roma, e Pietro Rossi, che gli succedette nel 1976 sulla cattedra di Storia della filosofia a Torino. Gli allievi lo amavano: con essi sapeva stabilire rapporti di amicizia. Affascinó quattro generazioni di giovani universitari con la sua chiarezza e semplicitá di linguaggio. Dice Bobbio che di straordinario Abbagnano aveva un modo «di prendere un testo che sembrava incomprensibile e farlo diventare facile». Lui, Abbagnano, la sua chiarezza la attribuiva all'insegnamento di Aliotta, il suo maestro napoletano.
Gli anni Cinquanta-Sessanta furono intensi, di grande fervore per il filosofo, «anni di lavoro pieno, totale». Il suo ricordo di quegli anni costituisce una pagina di analisi esemplare dell'Italia del dopoguerra. Vale la pena citarne alcuni passaggi: «L'Italia cambiava rapidamente, e da Torino questa trasformazione camminava sulle quattro ruote della Seicento con cui la Fiat - quasi a compensare la forte immigrazione dal Sud nelle proprie fabbriche - si stava spingendo per in giú4 lungo le autostrade che il governo stava costruendo a tappe forzate, allungandole di anno in anno per favorire, con la vendita delle auto, la manodopera ed i1 turismo. Erano anni di tensioni sociali altrettanto forti quanto lo erano stati gli slanci per la ricostruzione [ ... ] Ma era, quella, anche un'Italia felice ( . . . ] c'erano una semplicitá e, sí, un'innocenza oggi in gran parte perdute».
La modernitá del suo pensiero stava anche in questo interesse per la realtá, per lo sviluppo sociale e scientifico. Aveva studiato a fondo i filosofi antichi, ma era decisamente un contemporaneista. Suo grande merito fu di aver riavvicinato la filosofia alla vita, ai problemi, ai sentimenti del tempo in cui viveva. «Il filosofo - scriveva - non deve ritirarsi dal fervido e fecondo tu-multo dell'esistenza quotidiana e guardare dall'alto, ma deve vivere, e deve amare, soffrire, lottare, non perdere mai il vivo contatto con le profonde radici dell'essere [ . . . ] La veritá si conquista e si crea in un modo solo: vivendo».
Erano anni di scelte politiche quelli che egli visse a Torino dal 1945 al 1972, quando si trasferí a Milano.
Lasciamogli ancora la parola: «Ben piú grave era il perdurare di due antichi vizi italiani - il tranquillizzante bisogno d'essere in gregge, e il conformismo - che finí ben presto per aggiogare molti intellettuali al carro marxista. Anch'io venni piú volte interpellato perché m'aggregassi; ma, da sempre liberale per convinzione e temperamento, rifiutai. Militavano nel Pci (e vi militano tutt'oggi) molti miei colleghi, e non pochi dei giovani che seguivano le mie lezioni, sempre piú affollate». A questo proposito aggiunge: «Politicamente io sono cresciuto nella luce di Giovanni Amendola, e da questa non mi sono mai distaccato». Nonostante questa sua scelta, allora non facile, di star fuori dal conformismo politico di tanti intellettuali, nella Torino di quegli anni co-struttivi ma inquieti egli godette di stima e séguito. Racconta: «Mi meravigliavo di vedere sempre piú spesso alle mie lezioni persone di ogni etá e condizione, e talvolta anche belle signore (tra le quali, in prima fila, quella che nel 1946 divenne la sua seconda moglie, Marian Taylor, ndr). E sorridevo, cercando di mascherare un qualche compiacimento, a chi mi ricordava che, all'alba del secolo, questo successo era toccato a Bergson».
«Sull'eco parigina di Saint-Germain-des-Pres - racconta sempre a Staglieno - a Torino l'esistenzialismo era diventato una moda, il pretesto per abiti e gesti stravaganti. Anche nell'ambiente degli studi non mancarono, per qualche tempo, alcune scimmie di Sartre, della heideggeriana ‘nientificazione’ (L'etre e le néant). Si trattó di un fenomeno passeggero che non mi sfioró».
Altra cosa, senza dubbio, era l'esistenzialismo di Abbagnano. Esistenzialismo positivo, appunto, che fu il titolo del libro che pubblicó, per i tipi di Taylor, nel 1948. S'era avvicinato, é vero, alla filosofia dell'esistenza con Kierkegaard, Heidegger e Jaspers, ma vi aveva meditato per molti anni e il suo pensie-ro non si identificava certo con quello heideggeriano, si differenziava anche da quello di Jaspers, Marcel, Pareyson («1'assoluto divino»). «Io guardavo, invece - dice - ad un essere ‘esperenziale’ (l’io, gli, altri, il mondo), in una posizione di assoluta laicitá [...], una posizione lontana dal nichilismo e dal relativismo». Un concetto, questo, che si ritrova costantemente nelle sue manifestazioni di pensiero.
Fu lunga, indubbiamente, la sua ricerca sull'esistenza. La meditazione cominció alla fine degli anni Trenta, ma arrivó a individuare l'aspetto «positivo» dell'esistenzialismo negli anni Quaranta, anche in seguito all'incontro con Ludovico Geymonat (filosofo che negli anni Cinquanta partí dal neoilluminismo e negli anni Settanta approdó al materialismo dialettico) e soprattutto superando il naturalismo critico di John Dewey, filosofo e pedagogista americano, che giá Aliotta negli anni di Napoli gli aveva segnalato.
Di Dewey egli imitó il metodo di ricerca. Lo strumentalismo deweyano ha avuto certamente un ruolo importante nel suo pensiero maturo. Altri pensatori americani a cui prestó attenzione sono Santayana, Whitehead, Woodbridge, Patrick Romanell.
Rimane saldo nel suo pensiero il riferimento alle figure classiche della filosofia. Scrive: «Storicamente l'esistenzialismo é nella linea delle grandi metafisiche dell'Occidente, da Platone a Sant'Agostino, da Cartesio a Vico, a Kant». Queste figure storiche - aggiunge - «l'esistenzialismo non le considera imbalsamate e chiuse nei loro sistemi, ma come personalitá vive e potenti che hanno offerto per secoli agli uomini un modo di intendersi e di ritrovarsi é che ancora possono e potranno dare, alle urgenti e vitali domande degli uomini, risposte chiarificatrici».
Spirito profondamente laico e liberale, non si chiudeva alla ricerca e all'esperienza: dedicava sempre ore del giorno alla lettura, allo studio, alla elaborazione di idee, alla verifica. Non trascurò mai i rapporti con altri studiosi. Amava e sperimentava il confronto.
Nel dopoguerra fondó a Torino il «Centro di studi metodologici» con Geymonat, Bruno Leoni, Eugenio Frola, Enrico Persico.
Nel 1951, con Franco Ferrarotti fondó i «Quaderni di sociologia», la prima rivista della disciplina in Italia, che contribuí a dare un alto valore alla materia, sottraendola alle improvvisazioni di dilettanti.
Nel 1952 diresse, insieme con Bobbio, la «Rivista di filosofia», che programmaticamente, per sua volontá, si ispirava a queste tre tesi: «1) la ricerca filosofica non deve chiudersi dogmaticamente nei risultati raggiunti, ma deve mantenersi sempre aperta; 2) essa deve riconoscere il posto che la scienza occupa nel mondo contemporaneo; 3) essa deve pure impegnarsi nel mondo sociale e perció difendere anche sul piano politico la propria possibilitá».
Alla fine del 1951 fu primo firmatario dei Manífesto dell’Associazione per la libertá della cultura, al quale aderirono Guido Calogero, Tristano Codignola, Enzo Paci, Ferruccio Parri, Luigi Salvatorelli, Giovanni Spadolini, Mario Vinciguerra, Umberto Zanotti Bianco.
Era uomo e studioso di grandi aperture, liberalissimo e generoso nella concezione dei rapporti umani, anche se fermissimo sulle sue posizioni, senza mai compromessi o concessioni compiacenti.
Nei Ricordi ha parole cortesi per tutti: per Vattimo, il filosofo del «pensiero debole»; per il «migliorista» Veca; per un «epigono di Nietzsche» come Cacciari; per le due «alte intelligenze cattoliche» Del Noce e Mathieu; per Emanuele Severino, «critico di Heidegger»; per «l'alta finezza speculativa» di Remo Cantoni.
Ricorda - era il 1990, poco prima di morire - due suoi allievi: Bruno Maiorca, che curava per 1'UTET la raccolta dei suoi scritti, e Gianni Fornero, che ha ampliato il suo testo per i licei, Filosofi e filosofia nella storia, edito da Paravia.
Nel 1939 fu membro del Comitato di direzione di «Logos», rivista internazionale di filosofia, della quale era stato segretario di redazione dal 1926 al 1933.
Nel 1946 pubblicó con la UTET la Storia della filosofia, tre volumi che sono stati la base di formazione di molte generazioni di studenti.
Nel 1961 uscí, sempre con la UTET, il suo Dizionario di filosofia, che ha visto almeno due edizioni aggiornate e ampliate a cura di Fornero. Verso la fine degli anni Quaranta e per tutti gli anni Cinquanta egli fu protagonista di una nuova stagione della cultura filosofica italiana: quella del neo-illuminismo. Nel 1948 sulla «Rivista di filosofia» scrisse un articolo intitolato Verso il nuovo illuminismo, che, dice Bobbio, «diventó per molti giovani di allora un programma di vita e di studi».
Fu, quel movimento, un tentativo per la sprovincializzazione della nostra cultura, cosí come l'Illuminismo del diciottesimo secolo - con Locke e Hume in Inghilterra e Voltaire, Montesquieu, Rousseau, Diderot e gli enciclopedisti in Francia - si propose di liberare le menti dall'oscurantismo e di risolvere i problemi della civiltá umana con i lumi della ragione. Anche qui Abbagnano fece riferimento ai classici: «L'illuminismo di oggi - disse - si salda a quello della Grecia antica». Nonostante questi continui richiami all'antico il neo-illuminismo abbagnaniano ebbe una impronta rilevantemente moderna.
Di una cosa era assai orgoglioso: di aver «portato la filosofia tra la gente», come disse in una intervista, perché, aggiunse, essa «é un colloquio con gli uomini liberi».
Costante e cospicua fu in Abbagnano la ricerca delle vie della libertá. I suoi studi, i suoi scritti, tutto il suo pensiero sono caratterizzati da un liberalismo schietto, autentico, che é, si può dire, principio e scopo della sua filosofia. Sì, egli fu, dall'inizio e fino in fondo; uno spirito autenticamente e altamente liberale.
Dice nei Ricordi: «In un periodo dove la libertá individuale va sempre piú difesa [...] l'ho indirizzata sul versante pratico, ovvero di filosofia pratica. Sono moralmente convinto che la filosofia non puó essere una meditazione solitaria, deve aiutarci a vivere, guardando all'autodetermi-nazione, alla dignitá e alla libertá di ognuno, e sempre nel rispetto degli altri. Non si tratta solo di libertá politica che nel mondo - purtroppo ovunque - vediamo compromessa (...] Viviamo in un mondo sempre piú organizzato, con un'accentuazione dirigista, tanto che i margini oggettivi di libertá appaiono sempre piú stretti».
Questo era Abbagnano: con la sua filosofia calava nell'esistenza individuale l'idea di libertá, in polemica con l'idealismo, che la stessa idea la teneva alta nei cieli dello spirito.
Andiamo a vedere la voce liberalismo nel suo titanico Dizionario di filosofia. É «la dottrina - scrive - che si assume la difesa e la realizzazione delle libertá nel campo politico». E prosegue indicando gli indirizzi dottrinali che ne sono all'origine: «a) il giusnaturalismo, che consiste nel riconoscere all'individuo diritti originari e inalienabili; b) il contrattualismo, che consiste nel considerare la societá umana e lo stato come frutto di una convenzione fra individui».
Conclude la voce con un giudizio severo: «Il ricorso casuale o surrettizio all'uno o all'altro dei concetti di libertá che sono stati elaborati nella storia del pensiero filosofico ha reso l'idea liberale in politica con fusa ed oscillante e l'ha talora condotta alla difesa o alla accettazione della non libertá».
Si noti la chiarezza didascalica del filosofo, per il quale la filosofia - diceva - «non puó essere un sapere nebuloso accessibile solo agli iniziati». Nel Dizionario dedica ben sette fitte pagine alla voce libertá. Ne fa la storia, cita concetti, opere, tempi, autori nei quali sin dall'antichitá la parola ricorre. In chiarezza e semplicitá non c'é eguale in opere filosofiche.
É esemplare questo passo della voce libertá: «Un tipo di governo é libero non giá semplicemente se é scelto dai cittadini ma se consente ai cittadini in certi limiti una continua possibilitá di scelta, nel senso della possibilitá di mantenerlo e modificarlo o eliminarlo. Le cosiddette istituzioni strategiche della libertá, come le libertá di pensiero, di coscienza, di stampa, di riunione, eccetera, sono per l'appunto dirette a salvaguardare ai cittadini la possibilitá di scelta nel dominío scientífíco, religíoso, politico, sociale, eccetera».
C'é un libro di Abbagnano, Possibilitá e libertá, edito da Taylor a Torino nel 1956, in cui egli dimostra come la libertá sia soprattutto la possibilitá di scegliere.
I1 filosofo visse a Torino la stagione della contestazione studentesca alla fine degli anni Sessanta. La visse con coraggio e dignitá, senza cedimenti. Il suo nome viene fatto in un documento diffuso a metá gennaio 1968 dal comitato di agitazione di Palazzo Campana, la sede dell'ateneo torinese. «I docenti in genere - sentenziarono gli studenti che giocavano a fare la rivoluzione - se ne infischiano dell'Universitá e considerano le loro cattedre e i loro incarichi come un posto ed uno stipendio sicuro che permette loro affari privati. C'é chi fa il sindaco (Giuseppe Grosso), chi il deputato (Mussa Ivaldi), chi il dirigente industriale (Ricossa), chi il principe del Foro (Gallo), chi il pianificatore (Lombardini), e chi non fa assolutamente nulla (Nicola Abbagnano)».
Il «fare nulla» di Abbagnano - al quale nulla potevano evidentemente imputare i contestatori, non di rado profittatori ai fini di esami da superare e spesso anche teste vuote - era studio, ricerca, insegnamento, elaborazione di idee, analisi, come sempre del resto sin da quando, studente e poi docente, s'era dedicato agli studi con serietá e passione.
Oggi, a distanza di piú di trent'anni, é possibile giudicare quella contestazione una sollevazione tutt'altro che seria, peraltro soprattutto improduttiva. Il filosofo e sociologo Jurgens Habermas, marxista e ideologo della nuova sinistra tedesca, non esitó a definire i giovani protagonisti «vittime di una illusione». Dov'erano, del resto, gli elementi che configuravano una situazione davvero rivoluzionaria? E che cosa é rimasto di positivo di quel gran chiasso studentesco? Anni «formidabili», come qualcuno ha detto? A pro di chi? Enzo Bettiza, che a quel fenomeno dedicó belle pagine sul «Corriere», testimonió: «La veritá é che nell'Europa 1968 non esiste nessuna reale situazione prerivoluzionaria».
Abbagnano in quegli anni viveva una stagione di grande impegno e produttivitá intellettuale, e anche di riconoscimenti. Nel 1964 Giulio De Benedetti, direttore tutt'altro che remissivo de «La Stampa», anzi di gusti assai difficili, lo invitó a collaborare alla terza pagina. Solo nel 1974 il filosofo lasció il giornale torinese per trasferirsi coraggiosamente al «Giornale», invitato da Montanelli e Piovene.
Era un momento difficile, di grande conformismo e il quotidiano al quale andó a collaborare era oggetto di attacchi e polemiche. Scrive nei Ricordi: «Mi sentii chiamato in servizio. Ero felice, anche perché dal giugno 1972 avevo accanto Gigliola, la mia terza moglie». Una signora deliziosa, Gigliola Toninelli, un'insegnante che egli aveva conosciuto a Santa Margherita Ligure. Li sposó l'Arcivescovo di Torino, il Cardinale Michele Pellegrino, nella sua cappella privata, dispensando il filosofo - é lui che lo racconta nell'intervista a «Gente» - «da ogni formalitá». Tra il porporato e il laicissimo Abbagnano c'erano stima reciproca e amicizia profonda.
I1 suo rapporto con la religione negli ultimi vent'anni di vita fu problematico ma non di avversione. La filosofia, egli diceva, ha il cómpito di «chiarire la sorte e il destino dell'uomo indagato nei suoi rapporti con il mondo che lo circonda, con gli altri uomini con cui deve coesistere ed eventualmente con Dio». Dio: l'entitá suprema é presente, sia pure problematicamente, nel suo pensiero. Della religione, giudicava, «se ne ravvisa l'utilitá biologica e sociale», e di quella cristiana diceva che é «1a migliore di tutte». Soggiungeva: «L'ateismo non puó pretendere di immobilizzare l'uomo su una negazione definitiva».

Socio di accademie (i Lincei, le Scienze di Torino, la Pontoniana di Napoli) e dell'Istituto Internazionale di Filosofia, nel 1975 ebbe la laurea honoris causa per la filosofia a Parígi dall'Accademia Palatina, oltre che premi e riconoscimenti: la medaglia d'oro per i Benemeriti della Cultura, la «Penna d'oro», questa su proposta di Montale, assegnatagli dalla Presidenza della Repubblica, 1'Ambrogino d'oro del Comune di Milano, il Premio Pannunzio a Torino.
Giá nel 1949, durante un viaggio in Argentina, gli fu conferita la laurea honoris causa a Mendoza. Sempre quell'anno visitó, con un percorso durato tre mesi, tutte le maggiori Universitá americane, dove tenne conferenze e partecipó a seminari di studi.
Negli ultimi anni di vita dedicó i suoi studi alla ricerca della saggezza. Con l'editore Rusconi pubblicó: La saggezza della vita (1985) e La saggezza della filosofia (1987), che uscirono poi nei tascabili Bompiani. In tutti i momenti della sua avventura intellettuale la sua fu - lo si puó dire senza esagerazione - la filosofia della saggezza. Alla sua morte Aldo Visalberghi scrisse: «Egli ci lascia in ereditá un compito di estrema difficoltá: educare alla saggezza in una realtá mondiale schizofrenica, di ingiustizie e fanatismi.
Ho giá annotato all'inizio di questo mio scritto il suo impegno col Partito Liberale, ma voglio ancora ricordarlo citando le sue stesse parole (Ricordi): «Venni chiamato in servizio dal Partito Liberale, e mi prestai per qualche tempo alla politica. Può forse un filosofo astrarsi, evitando la collettività?». Fu capolista nelle elezioni comunali di Milano, su mia proposta, e fu assessore alla Cultura dal maggio 1985 al giugno 1986. «Ho il dovere - disse in una intervista - di dare una testimonianza in favore di certe esigenze che tutti ritenevano urgenti... poi ho dovuto obbedire all'esigenza dell'etá, lasciare una fatica che per me era eccessiva».
Morí il 9 settembre 1990 a Milano, dove si era trasferito nel 1972. Fu sepolto a Santa Margherita per sua espressa volontà.
Nel portone della sua casa nella cittadina ligure, il Comune ha posto una lapide-rícordo. Partecipai alla cerimonia inaugurale e ad un convegno in suo onore e ricordo, cosí come mi adoperai perché Milano gli dedicasse una piazza, partecipando anche qui alla cerimonia presieduta dal Sindaco Albertini e dall'assessore alla Cultura Salvatore Carrubba. Ho piú volte sollecitato il Comune di Salerno perché venga ricordato nella toponomastica locale. Sono in attesa che ció avvenga.


In: "Nuova Antologia", ottobre-dicembre 2003, pp. 235-256